Norme e principi
La Regione Lombardia ha approvato la nuova disciplina urbanistica con L.R. 12/2005, innovando i contenuti e le procedure volte all’approvazione degli strumenti di governo del territorio. La legge introduce un nuovo strumento a sostituzione del P.R.G. (previsto dalla legge 15 aprile 1975 n. 51), denominato Piano di Governo del Territorio (il P.G.T.)
La citata legge di riforma urbanistica regionale, L.R. 12/2005, integrata dalla L.R. 12/2006, si ispira alle ultime disposizioni regionali approvate e fondate sul principio della concertazione tra pubblico e privato nonché sul concetto dell’urbanistica negoziata (vedi L.R. 9/99, L.R. 1/2000 e L.R. 1/2001) e dal criterio riformatore federalista in attuazione di quanto previsto dall’art.117, comma 3 della Costituzione che definisce le forme e modalità di esercizio delle competenze spettanti alla Regione e agli enti locali.
In particolar modo l’articolazione dei contenuti della L.R. 12/2005, art.1 comma 2, si incardina su alcuni criteri fondamentali:” sussidiarietà, sostenibilità, partecipazione, flessibilità”
[L.R. 12/2005 Art. 1
2. La presente legge si ispira ai criteri di sussidiarietà, adeguatezza, differenziazione, sostenibilità, partecipazione, collaborazione, flessibilità, compensazione ed efficienza.
3. La Regione, nel rispetto dei principi di cui al comma 1 e dei criteri di cui al comma 2, provvede:
a) alla definizione di indirizzi di pianificazione atti a garantire processi di sviluppo sostenibili;
b) alla verifica di compatibilità dei piani territoriali di coordinamento provinciali e dei piani di governo del territorio di cui alla presente legge con la pianificazione territoriale regionale;
c) alla diffusione della cultura della sostenibilità ambientale con il sostegno agli enti locali e a quelli preposti alla ricerca e alla formazione per l’introduzione di forme di contabilità delle risorse;
d) all’attività di pianificazione territoriale regionale.]
Il Piano di Governo del Territorio è lo strumento principe che definisce le linee guida fondamentali e di dettaglio dello sviluppo urbanistico e non solo di un ambito territoriale, si ispira inoltre al criterio della sostenibilità intesa come garanzia di uguale possibilità di crescita del benessere dei cittadini e di salvaguardia dei diritti delle future generazioni.
Articolazione del PGT
Il P.G.T. è strumento che “definisce l’assetto dell’intero territorio comunale” e si articola in tre atti:
▪ il “Documento di Piano”
▪ il “Piano dei Servizi”
▪ il “Piano delle Regole”
atti tutti dotati di una propria autonomia tematica ma concepiti nell’ambito di un processo unico di pianificazione.
Documento di Piano: (D.d.P.) strumento che identifica obiettivi ed esprime le strategie che servono a perseguire lo sviluppo economico, sociale e infrastrutturale, nell’ottica di valorizzazione delle risorse ambientali, paesaggistiche e culturali. Ha validità quinquennale, non ha effetti sul regime giuridico dei suoli ed è sempre modificabile, in quanto strumento flessibile in grado di adeguarsi rapidamente all’evoluzione delle dinamiche territoriali. (art.8)
Piano dei Servizi (P.d.S.) strumento per armonizzare gli insediamenti con il sistema dei servizi (di iniziativa pubblica o ceduti al Comune) per garantire la vivibilità e la qualità urbana della comunità locale, secondo un disegno di razionale distribuzione dei servizi per qualità, fruibilità e accessibilità, nell’ottica di una connessione delle diverse parti del territorio, storicamente riconoscibili come parcellizzate. Esso non ha termini di validità, è sempre modificabile ed ha effetti sul regime giuridico dei suoli. Il P.d.S. ha genesi normativa anteriore poiché delineato dal L.R. 1/2001). (art 9)
Piano delle Regole (P.d.R.) strumento di controllo della qualità urbana e territoriale che disciplina l’intero territorio comunale, ad esclusione degli ambiti di trasformazione di espansione – individuati dal Documento di Piano- che si attuano mediante piani attuativi. Serve a dare un disegno coerente della pianificazione sotto l’aspetto insediativo, tipologico e morfologico nonché a migliorare la qualità paesaggistica dell’insieme. In tale contesto disciplina le aree e gli edifici destinati a servizi per garantire l’integrazione tra le componenti del tessuto edificato, nonché di queste con il territorio rurale. Esso non ha termini di validità, è sempre modificabile ed ha effetti sul regime giuridico dei suoli. (art 10)
Il P.d.R. ed il P.d.S., pur essendo autonomi sotto il profilo della elaborazione e della attuazione, devono garantire una impostazione sinergica tra di loro e con il D.d.P., al fine di consentire il raggiungimento degli obiettivi strategici e di sviluppo che sono contenuti in quest’ultimo atto.
La Valutazione Ambientale Strategica (V.A.S.), a sua volta, introdotta dalla legge regionale per il D.d.P., è il processo di consultazioni, preordinato a valutare la sostenibilità delle scelte di piano, che accompagna l’iter di formazione dello strumento urbanistico e che si sostanzia nel rapporto ambientale (descrittivo degli effetti dell’attuazione del piano sull’ambiente nonché le alternative ragionevoli, alla luce degli obiettivi che lo strumento urbanistico si pone) e nella dichiarazione di sintesi (illustrativa delle modalità in cui il rapporto ambientale è stato tenuto in considerazione nella redazione del piano nonché le ragioni delle scelte, sempre alla luce delle alternative possibili che erano state individuate).
Il processo di pianificazione, nel contesto del nuovo quadro normativo di riferimento, si arricchisce di plurimi momenti di confronto con tutti gli attori dello scenario, al fine di condividere il percorso di costruzione e di valutazione ambientale del piano nonché la sostenibilità delle scelte ad esso sottese, nell’ottica di garantire un livello di protezione elevato dell’ambiente come previsto dalla direttiva 2001/42/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo del 27 giugno 2001.
“Il Piano di Governo del Territorio prevede ed attua nuovi metodi di gestione e nuovi sistemi per l'informazione corretta ed esaustiva dei cittadini in merito alle scelte di politica territoriale; definisce i criteri di trasparenza e della comunicazione da mettere in pratica per consentire un'effettiva, e non solo formale, partecipazione ai processi di pianificazione da parte dei cittadini”
Il Quadro strategico Territoriale
La costruzione del PGT deve tenere conto:
- Il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (art 8)(art 13)
- Il Piano Paesaggistico Regionale;
- Il sistema della mobilità: ferro, gomma, piste ciclabili (art 9)
- il sistema dei Parchi,
- i Piani e Programmi presenti sul territorio.
Indirizzi — Obiettivi
Si possono preliminarmente evidenziare alcuni indirizzi generali che il dettato legislativo introduce, riguardo il nuovo quadro di pianificazione comunale:
> l’univocità delle strategie;
> il piano come processo;
> il piano come programma:
> la sostenibilità socio-economica ed ambientale delle scelte:
> la condivisione
a) delle conoscenze (attraverso la creazione del SIT)
b) delle strategie (partecipazione e raccolta di proposte dai soggetti che interagiscono con il territorio)
c) del processo realizzativo, attraverso informazione completa e trasparente)
> la responsabilità di:
a) uno sviluppo territoriale della città inserito in un contesto più ampio di conurbazione e di città metropolitana;
b) obiettivi e strategie comuni di vasta area
c) collaborazione interistituzionali
>la legittimazione dei meccanismi perequativi e compensativi, finanziari e ambientali, nonché di incentivazione urbanistica.
domenica 29 giugno 2008
domenica 18 maggio 2008
Relazione di Walter Veltroni al Coordinamento Nazionale del Partito Democratico
Il senso di amarezza e di delusione che ha pervaso gli animi dei militanti e degli
elettori del Partito democratico, per il risultato delle elezioni del 13 e 14 aprile, non è
semplicemente un fatto emotivo, comprensibile e perfino scontato. E’ esso stesso
un dato politico, da rispettare e da analizzare. E col quale fare i conti fino in fondo,
senza scorciatoie autoconsolatorie.
Quella amarezza e quella delusione ci dicono infatti quanto alto fosse il livello delle
nostre aspettative. Non a caso, ci siamo definiti un partito “a vocazione
maggioritaria”. Perché la nostra vocazione, ossia il senso stesso del nostro esistere
come partito, è quella di rappresentare la maggioranza degli italiani, di essere da
essa considerati la principale risorsa per il buon governo del Paese. Non
raggiungere quella soglia, la maggioranza necessaria a governare, significa
perdere le elezioni, essere e “sentirsi” sconfitti.
Niente, meglio di questo dato, che è di psicologia collettiva ma anche di cultura
politica, misura la distanza che ormai ci separa dalla lunga vicenda del
“bipartitismo imperfetto” della seconda metà del Novecento: quando una delle due
maggiori forze politiche del Paese era “condannata a governare”, mentre l’altra
sapeva di poter aspirare solo a “governare dall’opposizione”. Essa avrebbe
giudicato il nostro risultato odierno, che ci ha visti raccogliere 12 milioni di voti e
attestarci tra il 33 e il 34 per cento, una “impetuosa avanzata”. Noi, giustamente,
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non lo abbiamo giudicato così..
A trent’anni dalla morte di Aldo Moro, il punto più alto e tragico della parabola della
nostra “democrazia difficile”, la democrazia italiana ha mosso un altro passo
importante nella direzione della “democrazia compiuta”.
Dopo la conquista dell’alternanza, che ha disarticolato in modo travagliato e
doloroso le grandi forze politiche del Novecento, dando vita a coalizioni di
transizione, come tali anomale e disordinate, proprio grazie alla nostra iniziativa,
grazie alla nascita del Partito democratico, la grande forza riformista di stampo
europeo che mancava alla democrazia italiana, si va delineando un bipolarismo
nuovo.
Un bipolarismo fondato essenzialmente, anche se non esclusivamente, sulla
competizione per il governo tra due grandi partiti a vocazione maggioritaria.
E’ grazie alla nostra autonoma scelta politica di andare “liberi” alle elezioni, che il
nostro Paese ha conosciuto la discontinuità che serviva per iniziare a guarire da due
sue profonde malattie: la rissosità del confronto politico, la demonizzazione
dell’avversario ridotto sempre e solo a nemico; e l’esasperata frammentazione
politica che significava avere 20 partiti rappresentati in Parlamento e 14 gruppi
presenti alla Camera dei deputati alla fine della scorsa legislatura.
Se oggi, con sei gruppi parlamentari, siamo allineati al resto d’Europa, e se abbiamo
superato la logica delle coalizioni tenute insieme solo dalla volontà di contrapporsi
all’avversario, è perché il Partito democratico ha saputo prendere decisioni
coraggiose e difficili.
Noi abbiamo affermato un principio, imparando la lezione del passato, recente e
meno recente: non basta avere la capacità di vincere, bisogna avere la forza per
governare.
E sia detto subito, per chiarezza: è sulla verifica concreta e quotidiana di questo
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principio, che noi incalzeremo il governo. Chi ha vinto deve dimostrare di saper
sottrarsi al gioco dei veti paralizzanti, delle mediazioni defatiganti, dei ricatti degli
alleati, e governare.
E comunque: è in questa ambivalenza tra sconfitta elettorale e conquista di un
terreno di competizione politica più avanzato e maturo, il significato storico di
queste elezioni. Sbaglieremmo se amputassimo il risultato elettorale, dell’una o
dell’altra delle sue dimensioni.
Proprio in quanto ci siamo lasciati definitivamente alle spalle la cultura
proporzionalistica, per la quale ciò che conta è la forza relativa del proprio partito,
non possiamo non giudicare quella del 13 e 14 aprile una sconfitta della sfida di
governo.
Al tempo stesso, è grazie al risultato del Partito democratico, di dimensioni
“europee” pur nella sconfitta, se la prospettiva dell’alternanza resta aperta e
l’attuale equilibrio contendibile.
Ma è venuto il tempo di dirci che il problema emerso in queste elezioni è lo stesso
che abbiamo da quindici anni, e che giudicare il risultato elettorale con il respiro
corto è un errore politico e culturale molto grave.
L’amarezza e la delusione che hanno attraversato le nostre file ci parlano di una
crescente consapevolezza della radicalità della crisi del centrosinistra, che dal 1994
ad oggi ha governato per sette anni su quattordici, senza però mai riuscire a
diventare maggioranza nel Paese.
Anche quando abbiamo vinto, nel ’96, è stato perché gli altri erano divisi. E nel 2006,
ora ce lo possiamo dire, avevamo sostanzialmente pareggiato. Nonostante i
risultati deludenti di cinque anni di governo Berlusconi, non avevamo conquistato
la maggioranza, una maggioranza autosufficiente, né in Parlamento, né nel Paese.
Non aver ammesso il sostanziale pareggio di quelle elezioni e non averne tratto le
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necessarie conseguenze, innanzi tutto nell’assegnazione delle cariche
istituzionali, temo sia stato un errore grave, che ha segnato negativamente il corso
della legislatura.
La formazione del governo, con il record quantitativo di componenti e lo
spacchettamento delle competenze, esasperato fino alla frammentazione, causa e
conseguenza insieme della caotica litigiosità della coalizione, ha dato al Paese la
sensazione non dell’inizio di un ciclo nuovo, quando prevale la coesione attorno ad
un progetto e ad una leadership che lo incarna, ma dello stadio finale di un ciclo che
si andava concludendo.
E tuttavia, il 12 luglio 2006, il nostro governo raccoglieva la fiducia del 63 per cento
degli italiani. Cinque mesi dopo, il 12 dicembre 2006, la fiducia era crollata al 38 per
cento. Nell’ottobre 2007, chiaro effetto di quanto accaduto nelle settimane
precedenti con il pasticcio politico-parlamentare sul welfare, si arrivava al minimo
storico del 30 per cento. E’ in quel momento, il peggiore, che con le primarie per la
Costituente e per l’elezione del segretario l’idea del Partito democratico ha
mobilitato tre milioni e mezzo di persone. Ed è con la loro partecipazione che è
iniziato il cammino che ha portato alla costruzione di un soggetto politico forte.
Dobbiamo ancora interrogarci a fondo sulle ragioni di quella drammatica crisi nel
rapporto di fiducia tra il governo dell’Unione di centrosinistra e il Paese.
Alcune cose sono evidenti, e sono le stesse che continuano a farmi separare
drasticamente, nel giudizio, l’azione di Romano Prodi e del suo governo da quella
della vecchia coalizione di centrosinistra che lo sosteneva.
A Romano Prodi l’Italia deve molto. Deve l’aver raggiunto, tra il ’96 e il ’98, l’obiettivo
più importante della nostra storia recente, l’ingresso nell’Euro. Deve il risanamento
finanziario compiuto ancora una volta avendo ereditato dal Governo Berlusconi
che l’ha preceduto una situazione drammatica. Vorrei che tutto il paese
riconoscesseRomano Prodi è un grande uomo di Stato, che si è speso pe ril paese
con generosità e disinteresse.
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Mentre si andava dispiegando la nuova, spettacolare azione di risanamento dei
conti pubblici, che ci ha consentito, pochi giorni fa, di ottenere dalla Commissione
europea la revoca della procedura di infrazione per deficit eccessivo, che Prodi
aveva ereditato dal suo predecessore; mentre l’Italia recuperava credibilità
internazionale e riconquistava un ruolo da protagonista nella gestione della crisi
tra Israele e il Libano e, più in generale, nello scacchiere mediterraneo e
mediorientale, cominciava lo stillicidio quotidiano di polemiche, dissensi e
dissociazioni che ha segnato fin dal primo giorno il cammino del governo e ne ha
minato inevitabilmente la credibilità.
L’Afghanistan e le missioni all’estero, la base di Vicenza e la maggioranza costretta
per non spaccarsi a bocciare in Senato una mozione di fiducia al suo stesso ministro
della Difesa, i distinguo e le richieste di modifica sul protocollo sul welfare anche
dopo il voto inequivoco espresso da cinque milioni di lavoratori, ministri in piazza
contro l’esecutivo di cui facevano parte: e, a riassumere tutto, le parole con cui il
leader della Sinistra Arcobaleno, allora Presidente della Camera, dichiarava “fallito
il progetto del centrosinistra” e “chiusa una stagione”, con Prodi etichettato con le
ormai note parole usate da Flaiano per Cardarelli.
Uno spettacolo che come abbiamo visto alle elezioni si è stampato nella memoria
profonda del Paese e che richiederà tempo e fatica per essere cancellato. E’ come
se il Paese avesse avvertito una drammatica crisi di autorevolezza della politica,
proprio mentre doveva affrontare problemi difficili, talvolta angosciosi, legati alla
vita quotidiana delle famiglie e delle persone.
La mia opinione è che dovremo indagare specialmente in due direzioni, che hanno
a che fare coi temi dell’insicurezza e dell’impoverimento.
L’insicurezza, innanzi tutto. Tito Boeri ha osservato come il voto del 13 e 14 aprile
abbia premiato gli unici due partiti che si sono opposti all'indulto. E non a caso.
L’indulto infatti, hanno documentato gli studiosi de “la voce.info”, non solo ha fatto
aumentare l'attività criminale in Italia, ma ha anche modificato la composizione dei
flussi migratori, finendo per attrarre nel nostro paese più criminali che altrove.
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Tanto che oggi quattro italiani su dieci temono gli immigrati, non tanto per il lavoro,
quanto per i reati che possono commettere. Se non si rafforza la repressione
dell’attività criminale, conclude Boeri, in Italia prima o poi saremo costretti a
chiudere le frontiere. A quel punto, importeremo solo immigrazione irregolare, in un
circolo vizioso di illegalità che alimenta nuova illegalità.
Quella del nostro atteggiamento e delle nostre concrete proposte sul tema
sicurezza è una delle rotture programmatiche, delle innovazioni più importanti, che
abbiamo prodotto in questi mesi.
Sostenere, come abbiamo fatto, che il diritto alla sicurezza è fondamentale, che non
è né di destra né di sinistra, che chi governa ha il dovere di fare di tutto per
garantirlo, ad esempio espellendo dall’Italia chi si macchia di reati gravissimi e
mostra pericolosità sociale, ci ha rimesso in sintonia con le esigenze degli italiani,
che non capiscono perché delinquenti pericolosi arrestati dalla polizia vengano
scarcerati dopo due giorni, perché ci vogliano mesi per celebrare un processo
anche quando c’è flagranza di reato, perché i condannati evitino il carcere grazie a
troppi premi e benefici.
Evidentemente, però, dire finalmente cose chiare in proposito non ci ha permesso
di colmare il ritardo accumulato nel tempo, troppo lungo, in cui il vecchio
centrosinistra appariva come quello che negava il problema o per lo meno non lo
comprendeva del tutto. Si è compiuto un errore a mio avviso enorme non
approvando il pacchetto sulla sicurezza predisposto dal ministro Amato. Ci si è a
volte nascosti dietro i numeri, altre volte dietro la convinzione che fosse solo
“percezione” e non problema reale. Niente di più sbagliato. Dal punto di vista
sociale le percezioni contano come i fatti.
Sergio Chiamparino lo ha detto bene, chiarendo che quando si parla di sicurezza “di
percepito non esiste niente, la paura è un dato reale”, e se una persona non esce di
sera perché teme di essere aggredito, non è che lo si può obbligare ad imparare a
memoria i dati dell’Istat per tranquillizzarsi.
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Sulla sicurezza noi dobbiamo proseguire con estrema determinazione, con molta
cura, con grande equilibrio. Avere un atteggiamento forte, come è giusto fare, non
significa accettare una linea puramente repressiva. Capisco che sia più facile, che
sia “popolare”, dire che bisogna far pattugliare il territorio da “ronde” di privati
cittadini, ma non si risolvono i problemi facendo una bandiera della caccia
all’immigrato, superando i limiti della civile convivenza.
A questa pericolosa tendenza dobbiamo reagire, e ricordare che si può e si deve
dare sicurezza e tutela ai cittadini, salvaguardare i loro diritti, assicurare la loro
libertà e la loro serenità, senza comprimere mai, in alcun modo, le garanzie
costituzionali.
E poi, come dicevo, l’impoverimento. Sono quindici anni che l’Italia cresce più o
meno la metà della media europea. Se fossimo cresciuti come gli altri, in tutto
questo periodo, oggi il pil del nostro Paese sarebbe di almeno 10 punti più grande,
qualcosa come 150 miliardi di euro l’anno in più. Una cifra impressionante, che
racconta non solo del nostro ritardo, ma anche dell’impoverimento relativo delle
famiglie italiane, in particolare quelle a reddito fisso, che hanno, per così dire,
stipendi e pensioni in lire e prezzi in euro.
Nel mio discorso di ieri alla Camera dei deputati, in occasione del voto di fiducia al
governo, ho voluto ricordare alcuni dati: siamo al ventitreesimo posto tra i paesi
Ocse per il livello dei salari medi lordi e il divario tende a crescere, oltre
ottocentomila sono le persone con un lavoro precario e con meno di 8 mila euro
l’anno, sei milioni e mezzo di pensionati devono andare avanti con 550 euro al mese,
più di una famiglia su dieci vive al di sotto della soglia di povertà.
Quasi la metà della nostra popolazione possiede solo la licenza di scuola media
inferiore: vale a dire che siamo impreparati e in gravissimo ritardo proprio lì dove si
costruiscono le basi di una cittadinanza consapevole e le condizioni per una solida
competizione economica.
E poi c’è un’altra grave emergenza: siamo in presenza, in Italia, di una crisi
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demografica, di uno squilibrio tra giovani e anziani che riduce già oggi, e rischia di
ridurre sempre di più, le possibilità di crescita del Paese e aggrava il carico
economico e sociale sui futuri giovani e adulti. Gli anziani eccedono di gran lunga i
ragazzi con meno di 15 anni, molto più di quanto non accada negli altri paesi europei,
tanto che nella media europea queste due percentuali sono più o meno allo stesso
livello.
La spiegazione è anche nel fatto che la vita media nel nostro Paese è una delle più
alte del continente, è vero, e questo è indubbiamente un bene. Ma ci sono anche
due elementi che destano grande preoccupazione. La scarsa natalità innanzitutto,
molto più bassa rispetto ad altri paesi europei: abbiamo in Italia 1,35 figli per donna,
contro l’1,84 della Gran Bretagna e il 2 della Francia. C’è un circolo vizioso che va
spezzato: quello tra scarsa occupazione femminile, una rete di servizi non
sufficiente e un conseguente e pressoché inevitabile, in queste condizioni, basso
tasso di natalità.
L’altro elemento di grande preoccupazione riguarda proprio i giovani italiani.
Finiscono gli studi in ritardo rispetto a quanto accade in altri paesi europei, entrano
con ritardo nel mercato del lavoro, mettono su famiglia in ritardo e quindi
contribuiscono in ritardo alla vita sociale ed economica del paese. Ci sono meno
giovani rispetto agli altri paesi concorrenti e in più li facciamo entrare in ritardo nel
circuito produttivo, economico e sociale.
Alfredo Reichlin lo ha detto nel modo migliore, parlando di una moderna “questione
sociale” che sta diventando esplosiva e della quale noi dobbiamo prendere piena
contezza. “Abbiamo parlato poco al Paese – ha detto Alfredo guardando a questi
anni – mentre era sempre più necessario ridefinire la sua agenda vera. Governare
significava anche capire meglio quali sconvolgimenti e rotture di vecchi legami
stavano avvenendo nella società italiana”.
E’ così. Se guardiamo all’Italia davvero avvertiamo l’esistenza di un impasto fatto
di nuove povertà, di senso di ingiustizia, di una crisi profonda del nostro sistema
formativo, di malaffare e illegalità, dell’indebolirsi delle relazioni sociali e umane, di
una paura diffusa che accorcia lo sguardo e rende tutto più piccolo.
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Non mancano le analisi attente, intelligenti, che raccontano di un Paese
spaventato, incerto, stanco, che percepisce il futuro con timore molto più che con
speranza, e che per questo volge lo sguardo più facilmente, in una certa misura
istintivamente, a chi propone una sorta di “ideologia del guscio”, come è stata
efficacemente definita da Aldo Schiavone. A chi propone il ripiegamento difensivo
e una ricetta fatta di muri alzati, di una chiusura verso immigrati e importazioni che
se forse ha il merito di rassicurare nell’immediato, alla distanza significa
essenzialmente sottrarsi alle sfide del nostro tempo, che implicano di necessità il
cambiamento, e non permetteranno di salvarsi stando fermi.
Non sarà con rifugi solo apparenti o con visioni semplicisticamente conservatrici,
identitarie e “protettive”, che l’Italia riprenderà a correre e a crescere. Ha scritto
Eugenio Scalfari: “In un mondo globale questa visione significa costruire
compartimenti stagni che separano le comunità locali dall’insieme. Significa dare
vita ad un Paese non più soltanto duale (il Nord e il Sud) ma con velocità plurime e
con dislivelli crescenti all’interno stesso dei distretti più produttivi e più agiati, e con
contraddizioni mai viste prima”.
Certo, tutti questi non sono temi che riguardano solo noi italiani. Sono i tratti che
delineano gli scenari mondiali e che evidentemente hanno non poco a che fare con
gli assetti politici dei singoli stati, se è vero che se i laburisti perdessero il potere in
Gran Bretagna solo un Paese tra i quindici più grandi dell’Unione Europea avrebbe
un governo di centrosinistra. Sono problemi estremamente concreti che incidono, e
incideranno sempre più, sulle sorti di ogni nazione e sulla vita di milioni e milioni di
persone.
Ha ragione chi osserva come allo spostamento di ricchezza dal lavoro al capitale in
atto da un quarto di secolo, che ha già prodotto l’impoverimento di larghe fasce
delle popolazioni all’interno dei singoli paesi, si sta aggiungendo un altro enorme
spostamento di ricchezza da chi consuma petrolio, metalli, grano, e chi queste cose
le produce.
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A pagare per primi il prezzo di questo sono i cittadini dei paesi consumatori, che già
penalizzati dal fatto che i loro salari e i loro stipendi sono da tempo fermi, devono far
fronte all’aumento dei prezzi dei prodotti energetici e di quelli alimentari. Il tenore
di vita diminuisce, ci si sente più poveri, ci si sente precari. Anche chi il lavoro ce l’ha.
A maggior ragione chi va avanti con contratti di pochi mesi e vive il futuro come una
continua scadenza e un susseguirsi di punti interrogativi.
Esiste, ed avanza, una “nuova povertà” che è incertezza sul futuro, che è
un’insicurezza che viene non solo dall’insufficienza del reddito o dal divario che
aumenta tra quello dei laureati e quello dei lavoratori poco istruiti, ma dalle
domande su come fare a tutelare il proprio stato di salute, a garantire ai propri figli il
necessario livello di educazione scolastica e di conoscenza, a mantenere viva una
propria rete di relazioni sociali, a non veder minacciata la propria stessa incolumità
fisica nel luogo dove si è sempre vissuti e di cui si fa fatica a comprendere ed
accettare i cambiamenti.
E’ quella sensazione di solitudine che è in effetti un fenomeno globale, ma che nel
caso del nostro Paese si accompagna, con effetti evidentemente acuiti, ad altri
elementi: una democrazia che fatica a decidere, una politica screditata agli occhi di
troppi italiani, una società che è stata definita “a coriandoli”, se non addirittura una
“poltiglia”, per il suo essere attraversata in profondità da egoismi, da
corporativismi, da un vuoto di valori che preoccupa e da un sentimento di
appartenenza comune che deve far riflettere per la sua debolezza.
In un contesto come questo, è mancata la chiarezza, nella coalizione di
centrosinistra, attorno a quella regola aurea del riformismo moderno che dice che il
nostro obiettivo è combattere la povertà, non la ricchezza. E invece, la società
italiana ha finito per credere alla cattiva propaganda di quanti, alla nostra sinistra,
invocavano politiche economiche e sociali per dividere il Paese, anziché unirlo,
come si sforzava di fare il governo, attorno al duplice obiettivo di rilanciare la
crescita e ridurre le disuguaglianze.
Le aspettative che pure l’Unione aveva alimentato sono così andate deluse,
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alimentando distacco e dissenso dal nostro governo: sia nel mondo della piccola
impresa e del lavoro autonomo, che si è sentito colpito dalla nostra politica fiscale,
sia in quello del lavoro dipendente e del reddito fisso in generale, che non ha
percepito benefici, a fronte di un aumento generalizzato del costo della vita.
Il tempo, come ha detto Romano Prodi, il tempo normale di una legislatura, avrebbe
messo in luce i benefici che l’azione di governo stava producendo per la finanza
pubblica e per il sistema economico. Ma la precarietà della maggioranza
parlamentare e la fragilità politica della coalizione non hanno potuto garantire al
governo il tempo necessario.
E’ per questo che abbiamo dovuto e voluto aprire una fase politica nuova.
“Vocazione maggioritaria” significa anche questo: avere una visione complessiva
del Paese e dei suoi problemi, e non rinunciare a proporla agli italiani, facendone la
bussola della propria proposta politica e programmatica. Anche nel momento in cui
la corrente sembra andare invece in direzione di una ulteriore chiusura
frammentazione sociale. Proprio quando, come è stato scritto, pare davvero di
essere di fronte ad un “riposizionamento del baricentro mentale della nazione
rispetto alla tradizione sociale e politica che aveva costruito la Repubblica”.
E’ adesso, in una fase complessa e delicata come l’attuale, che c’è più bisogno di
una forza – e può essere solo la nostra, solo il Partito democratico – capace di
assolvere, in questo dato momento storico, ad una funzione nazionale e
“unificante”. Capace di lavorare ad una nuova “autoidentificazione” culturale, alla
creazione di un nuovo “collante” che saldi ciò che da troppo tempo è diviso e che
dall’altra parte non si ha interesse ad unire, perché è più facile cavalcare la paura
che accendere la speranza, è più facile promettere soluzioni parcellizzate e
calibrate in base all’interlocutore di turno: Nord e Sud, operai e imprenditori,
lavoratori autonomi e dipendenti, laici e cattolici.
Ma se tutto questo è vero, io condivido pienamente la conclusione che Alfredo
Reichlin trae nello stesso articolo che prima citavo: altro che “tornare indietro”, il
Partito democratico ha più che mai bisogno di continuare ad operare grandi
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innovazioni, noi abbiamo bisogno di fare definitivamente i conti con l’idea e la
pratica di un riformismo troppo debole, ridefinendo “il profilo popolare moderno del
nuovo partito” e attrezzandoci a quella che è anche una battaglia culturale ampia e
di lunga lena.
Guai se di fronte alle difficoltà cadessimo nella tentazione di voltare la testa
all’indietro. Guai se solo perché la strada si presenta in salita rinunciassimo al
cammino che insieme abbiamo iniziato o cercassimo scorciatoie solo
apparentemente più agevoli.
Anche perché, vorrei condividere questo convincimento con voi, i passi che
abbiamo compiuto fin qui sono molti, e vanno nella giusta direzione. Ci hanno
permesso di risalire da una china assai pericolosa, che ci aveva portato molto in
basso.
Parlo di un anno fa, all’incirca di questi tempi. Ad un distacco e ad una critica nei
nostri confronti apparsi clamorosamente evidenti nelle elezioni amministrative del
maggio 2007. “Cdl al 50 per cento, l’Unione perde 7 punti, Partito democratico a
picco”. Questo il tenore dei titoli di apertura di tutti i quotidiani italiani il 30 maggio
2007 e nei giorni successivi.
“Si prendano le provinciali”, scriveva Ugo Magri su “La Stampa”. “Globalmente il
centrodestra (Udc compresa) raggiunge il 57,1 per cento, con l’Unione al 38,5. Come
dire quasi 20 punti di differenza. Facile obiettare che 4 delle 7 province si trovano nel
cuore della Padania, dunque un divario a favore di Berlusconi era nell’ordine delle
cose. Senonché dal 2002 (provinciali precedenti) questo distacco è aumentato a
dismisura. La Cdl è cresciuta del 4,7 per cento, il centrosinistra ha perso il 7,1. E se si
guarda all’interno delle due coalizioni, si vede da una parte la Lega sugli scudi
(secondo partito dell’alleanza al 13,2), dall’altra si coglie il tonfo dell’Ulivo, cioè il
futuro Partito democratico: calato al 22,4 per cento, meno 8,1 rispetto alla
precedente tornata. Unici a crescere, sulla sinistra, sono Verdi e Comunisti italiani…
Di Pietro riesce a guadagnare uno 0,6 per cento che, con questi chiari di luna,
provoca un ohhh di stupore”.
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Dunque, ci diceva il responso delle urne un anno fa, la crisi di consenso del
centrosinistra era pagata per intero dal Partito democratico.
Voglio essere ancora più chiaro: nessuno di noi si illuda che il risultato raggiunto in
queste elezioni sia un nuovo “zoccolo duro”. Temo che questa definizione si attagli
di più alle cifre che avevamo raggiunto alle provinciali del 2007: poco più del 20%. Il
resto è il prodotto di quella rimonta, di quel recupero di fiducia che abbiamo visto
nelle piazze e in quella campagna elettorale che voglio ringraziare tutti per aver
definito efficace e innovativa.
Quei voti vanno riconquistati ogni giorno. E ci impongono di continuare il progetto
di innovazione che abbiamo avviato politicamente e programmaticamente
qualche mese fa.
Nel maggio dell’anno scorso, erano i nostri elettori a voltarci le spalle, mettendo a
rischio non solo il governo dell’Unione, che difficilmente avrebbe potuto reggere a
lungo un così basso indice di consenso nel Paese con numeri parlamentari tanto
risicati, ma anche il progetto, la prospettiva del PD, che rischiava di abortire a solo
poche settimane dalla storica decisione assunta dai congressi di Ds e Margherita.
Fu sulla base di questa preoccupazione, viva e diffusa, che il Comitato dei 45, che
allora presiedeva alla fase costituente del PD, decise su proposta di Romano Prodi
di far eleggere il 14 ottobre non solo un’Assemblea costituente, ma anche un
segretario nazionale del nuovo partito, in modo, si disse allora, di distinguere le sorti
del Partito democratico da quelle del governo dell’Unione.
Per quanto mi riguarda, ho invece sempre pensato che avremmo potuto dare futuro
al nostro partito solo schierandolo a difesa del governo Prodi. E poi, una volta
consumata la crisi del governo per colpa delle forze che si sono assunte la
responsabilità di far mancare il loro sostegno parlamentare, battendoci con
convinzione e senza risparmio per vincere le elezioni,
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Se ci fossimo ripresentati con l’Unione, avremmo raccolto come schieramento –
nella migliore delle ipotesi, sulla quale personalmente nutro enormi dubbi – gli
stessi voti. Avremmo dunque ugualmente perso le elezioni. Ma la distribuzione di
quel voto sarebbe stata molto diversa, assai probabilmente simile a quella delle
provinciali del 2007, con un PD molto al di sotto della soglia del 30 per cento,
attorniato dal consueto sciame di piccoli e piccolissimi partiti, ciascuno per sé più o
meno vittorioso.
Un quadro politico non solo nefasto per il Partito democratico, che avrebbe visto
rimessa in discussione, da parte degli elettori, la sua stessa esistenza; ma anche
privo di prospettiva, di qualunque prospettiva che non fosse quella di una lunga
opposizione ai margini della società italiana.
Ciò non significa, si badi bene, che questo risultato, il risultato del 13 e 14 aprile, non ci
consegni problemi grandi e rischi seri, anche per il Partito democratico.
Le politiche del 2008 hanno infatti confermato la tendenza al deflusso di voti dal
centrosinistra al centrodestra, che si era già clamorosamente verificato, in scala
ridotta, con le elezioni amministrative parziali del 2007.
Una parte di questo deflusso ha coinvolto l’Udc, che ha ceduto più della metà dei
suoi voti del 2006 al Pdl, quasi interamente compensati da voti in entrata di
provenienza dal centrosinistra, in particolare Udeur e PD.
Il Partito democratico ha visto confermata su scala nazionale la crisi di consenso in
aree centrali dell’elettorato, già emersa nel 2007, essenzialmente a causa del
giudizio critico sulle posizioni “storiche” del centrosinistra in materia di politica
fiscale e di sicurezza.
Abbiamo invece attratto più di un terzo dell’elettorato che alle scorse politiche
aveva votato per una delle formazioni che da ultimo avevano dato vita alla Sinistra
Arcobaleno. E questo è tanto più significativo in un contesto segnato dalla rottura
dell’Unione e dal chiarimento delle posizioni reciproche.
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Col loro comportamento, gli elettori di sinistra hanno dimostrato di essere, a
determinate condizioni, disponibili a sostenere il Partito democratico.
E soprattutto, di non condividere, nella loro stragrande maggioranza, una linea
politica e forse prima ancora una cultura politica, che pensa di poter sostenere i
valori e i principi della sinistra senza fare i conti con il nodo del governo.
Quasi tre elettori di sinistra su quattro hanno ritenuto non interessante la proposta
della Sinistra Arcobaleno, proprio in quanto priva di una proposta di governo. E più
della metà di questi ha deciso di votare il PD, proprio in quanto proposta di governo
credibilmente alternativa a quella della destra.
Ora c’è una sinistra che non è rappresentata in Parlamento, ma che è nel Paese. E’
interesse comune, voglio ripeterlo ancora, che la sua voce non smetta di pesare
nella vita istituzionale e politica. Ed è un nostro impegno dialogare, interloquire con
la sinistra radicale. Noi non possiamo prescindere dalla comprensione di ciò che di
critico si muove nella nostra società, dal malessere che la attraversa e che non si
può rischiare di lasciare alla sola protesta senza ascolto e senza voce. Ci sono
condizioni sociali e aspettative di vita che si sono tradizionalmente riflesse in un
elettorato ma che non per questo, ora, devono restare a noi estranee. L’incontro
che lunedì avrò con Claudio Fava, nuovo coordinatore della Sinistra democratica, è
un passo che facciamo in questa direzione.
Dobbiamo riflettere e capire, perché in tutte le democrazie del mondo i riformisti
vincono quando riescono a sfondare al centro, trattenendo al tempo stesso una
quota significativa dell’elettorato critico, giovanile, marginale, genericamente “di
sinistra”, all’interno di una prospettiva e una cultura di governo.
Così è avvenuto negli Stati Uniti con Clinton, così è accaduto nel Regno Unito del
New Labour, così è avvenuto nella Spagna di Zapatero. Così non è avvenuto alle
ultime elezioni in Germania, dove proprio la autonoma consistenza elettorale di
una sinistra irriducibile alla logica del governo ha impedito a Gerhard Schroeder di
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tornare alla cancelleria e ha imposto alla Spd come unica via praticabile quella
della Grosse Koalition.
Proprio la riflessione su queste esperienze dovrebbe indurci a superare una
discussione sulla falsa alternativa tra alleanze ed autosufficienza, tanto più se
prospettata in termini ormai anacronistici.
In un contesto segnato dalla competizione elettorale e politica tra alternative di
governo, in tutte le democrazie del mondo i protagonisti del confronto sono due
grandi forze politiche a vocazione maggioritaria, che possono a loro volta essere
centro di gravità di un sistema di alleanze con partiti minori, che tuttavia non
contestano in nessun modo all’unico grande partito dell’alleanza la leadership
politica generale. Il che è il contrario di una “ideologia del bipartitismo” che, in
quanto tale, è sostanzialmente estranea alla nostra storia.
Non si tratta di una pretesa astratta, ma della concretissima condizione necessaria
alla stabilità, dunque all’affidabilità e alla credibilità della proposta di governo, a
sua volta condizione del suo successo elettorale.
Il problema che sta oggi davanti a noi non è allora quello di scegliere tra una
classica cultura delle alleanze, tipiche di un contesto proporzionalistico, e
un’astratta e statica pretesa di autosufficienza.
Vorrei dire anzi che non c’è strategia più lontana dalla vocazione maggioritaria che
la pretesa di autosufficienza. La pretesa di autosufficienza esprime un
atteggiamento di chiusura orgogliosa e identitaria, proprio mentre la vocazione
maggioritaria spinge un grande partito come il nostro ad aprirsi ad apporti altri, a
stabilire modalità anche diverse tra loro di convergenza, di collaborazione, di
alleanza.
Non a caso, nei mesi scorsi, nel definire la nostra scelta strategica abbiamo usato
l’espressione “andare liberi”. Per contrastare l’idea della solitudine e
dell’autosufficienza. Per essere liberi di rivolgerci al Paese con un programma
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innovativo, con una proposta di governo credibile e coerente.
Il nostro obiettivo è dunque quello di intraprendere in modo pragmatico una
iniziativa di dialogo a tutto campo con le diverse forze della sinistra, socialiste,
ambientaliste; con forze come l’Udc, oltre che ovviamente con l’Italia dei valori e, su
un piano diverso, con i Radicali, per verificare, col tempo che sarà necessario, la
disponibilità a concorrere non alla costruzione di un generico fronte di tutte le
opposizioni, che riprodurrebbe la vecchia, fallimentare logica delle “coalizioni
contro”, capaci di vincere ma non di governare, bensì alla convergenza politica e
programmatica con la nostra proposta di governo del Paese.
Sarà innanzi tutto nelle amministrazioni locali che metteremo alla prova questa
disponibilità nostra a dar vita, sulla base di linee programmatiche e politiche chiare
e trasparenti, alle coalizioni più ampie possibili, aderenti ai bisogni e alle
prospettive delle diverse realtà territoriali.
La politica delle alleanze non è quindi altra cosa rispetto all’impegno rivolto ad
espandere la nostra capacità di rappresentanza del Paese, tanto meno ne è il
surrogato: ne è piuttosto parte integrante e uno degli aspetti qualificanti.
I risultati elettorali ci consegnano del resto un quadro tutt’altro che immodificabile.
Il 13 e 14 aprile hanno votato per la Camera dei Deputati 36 milioni 452 mila italiani, 1
milione 701 mila in meno del 2006, pari a circa il 4,5%.
Il Popolo della Libertà ha raccolto 13 milioni 629 mila voti, pari al 37,4%, facendo
registrare un calo di quasi un punto percentuale e di circa un milione di voti in cifra
assoluta. In compenso, la Lega Nord ha quasi raddoppiato i suoi voti: 3 milioni oggi,
contro 1 milione 748 mila nel 2006, 8,3% contro il 4,6. Ai voti della Lega al Nord, vanno
aggiunti i 410 mila voti dell’Alleanza per il Sud nel Mezzogiorno.
Il voto al centrodestra raggiunge il livello europeo di una consistente maggioranza
relativa, ma non varca la soglia di quella assoluta. Con i suoi 17 milioni di voti, la
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coalizione radunata dall’on. Berlusconi ha raggiunto il 46,8% dei voti, che il
meccanismo elettorale ha trasformato in un’ampia maggioranza sia alla Camera
che al Senato.
Non è quindi in alcun modo in discussione la legittimazione a governare, da parte
della coalizione che ha vinto le elezioni. Sarà tuttavia opportuno che essa
rammenti di non avere dalla sua parte la maggioranza assoluta degli italiani e a
maggior ragione rinunci quindi a quelle presunzioni di onnipotenza che hanno
caratterizzato in passato il modo di governare del centrodestra.
Allo stesso modo, sarà bene che noi non perdiamo di vista questo dato, che ci
consegna la fotografia di una società aperta e mobile, nella quale non è accaduto
nulla di epocale e di irreversibile: la larga maggioranza relativa conquistata dal
centrodestra resta pienamente contendibile. Non solo, come è ovvio, sul piano
delle regole formali, ma anche su quello sostanziale dei rapporti di forza nel Paese.
Il Partito democratico ha raccolto alla Camera 12 milioni 93 mila voti, pari al 33,1%,
aumentando sia in voti che in percentuale quanto ottenuto dalla lista dell’Ulivo nel
2006. E la stessa cosa, in modo anzi ancora più ampio, è avvenuta al Senato, dove
con 11 milioni 42 mila voti abbiamo raggiunto il 33,6%.
E c’è un dato su cui è importante soffermarsi, perché è indice di come la novità del
PD sia stata compresa, lì dove il fattore del poco tempo oggettivamente a nostra
disposizione è stato “mitigato” da una maggiore facilità di ascolto e di formazione
di opinione.
Nelle città con più di 100 mila abitanti, i rapporti di forza espressi dal voto si ribaltano.
Il Partito democratico è il primo partito, con il 37,9% contro il 37% del PdL. E lo stesso
avviene tra le due alleanze: al nostro 43% corrisponde il 42,7% dei nostri avversari. E
questo non solo grazie al risultato delle regioni in cui siamo più forti. Se si prende il
voto delle città del Nord vale la stessa cosa: il Partito democratico è al 38,8% e il
Popolo della Libertà al 31,5%. Il nostro schieramento è al 44,1% e i nostri avversari, con
tanto di Lega Nord, al 41,8%.
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Vorrei sottolineare come solo due anni fa, alle scorse politiche, la situazione fosse
opposta. Nelle stesse città noi eravamo al 36%, i nostri avversari al 37,5%.
Insomma: sarebbe puro autolesionismo affrontare i problemi non risolti che hanno
contribuito a farci perdere le elezioni mettendo in discussione le scelte che ci hanno
fatto vincere la scommessa politica della nascita del Partito democratico.
Per la prima volta nella sua storia, l’Italia dispone di un grande partito riformista, di
centrosinistra, in grado di mettere in campo una forza elettorale paragonabile a
quella degli altri grandi partiti riformisti europei.
I Laburisti inglesi, con la guida di Tony Blair, hanno vinto le elezioni per tre volte
consecutive con percentuali che hanno oscillato tra il 44,5% del 1997 e il 35,3% del 2005.
I socialisti spagnoli hanno perso le elezioni del 2000 con il 34,4% e le hanno vinte, con
Zapatero, nel 2004 col 42,6% e nel 2008 col 43,6%. I socialdemocratici tedeschi,
superati di misura nel 2005 dalla Cdu, con la quale ora governano nella Grosse
Koalition, hanno registrato il 34,2% dei consensi.
Ma il carattere aperto della struttura politico-elettorale del Paese è reso ancor più
evidente dalla disaggregazione del voto per aree geografiche.
Come ha scritto Roberto D’Alimonte, al Nord, “con il calo di 5 punti percentuali (a
favore della Lega) nel voto al Pdl e la sostanziale tenuta del Pd si è ridotto il divario
tra questi due partiti. Il primo ha oggi il 32,1% dei voti, contro il 29,3% del secondo e il
19,1% della Lega”.
Il 13 e il 14 aprile i voti al Pdl e quelli alla Lega – molti dei quali provenienti dal
centrosinistra – si sono sommati. Ma nulla dice che dovrà essere così per sempre.
Molto dipenderà anche dalla nostra iniziativa politica, sia sul terreno
programmatico che su quello delle alleanze.
Voglio citare di nuovo Chiamparino, ma si potrebbe fare l’esempio anche di altre
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città del Nord Italia, perché ha ragione quando ricorda che nel ’93 la Lega aveva
raggiunto il 21% e per poco non andò al ballottaggio per il Sindaco. Le cose di cui si
parla oggi non sono quindi una novità, ci sono già state e sono state già sconfitte
una volta, visto che nell’area torinese la Lega ha il suo rispettabile 6% dei voti ma a
governare, bene e da diversi anni, siamo noi.
Investendo su noi stessi, sulle nostre idee, sui gruppi dirigenti locali e sulla loro
autonomia di decisione, facendo vivere concretamente l’identità di un partito
federale, possiamo ripetere molte altre volte questa situazione. I recenti
ballottaggi alle amministrative, Vicenza e Sondrio in testa, ce lo dimostrano.
L’importante è avere convinzione e umiltà insieme. La convinzione di aver
cominciato a usare le parole giuste e di aver individuato le proposte in grado di
rispondere alle aspettative dei cittadini del Nord, di aprire le prime sostanziose
crepe nel muro di diffidenza che separava il vecchio centrosinistra e quelle regioni.
L’umiltà di sapere che resta aperto un problema di credibilità da guadagnare, da
conquistare pian piano, con il tempo, dimostrando concretezza e coerenza.
Dimostrando di aver definitivamente capito, e di agire di conseguenza, che la
questione del Nord è innanzitutto l’insufficienza delle risposte della politica
nazionale alle sue domande, è l’assenza o l’incredibile ritardo delle infrastrutture
necessarie agli imprenditori per affrontare la sfida dei loro competitori
internazionali, è il peso di adempimenti burocratici di cui resta ignota l’effettiva
necessità, è lo squilibrio inaccettabile tra la pressione fiscale e i servizi restituiti in
cambio alle comunità, è la mancanza di risposte efficaci quando si tratta di
conciliare bisogno diffuso di manodopera, politiche di integrazione e contrasto
dell’illegalità per garantire sicurezza a imprese e cittadini.
Lasciando il risultato elettorale del Nord, “al Centro e al Sud – scrive ancora
D’Alimonte – la situazione è molto diversa. In queste due aree i rapporti di forza tra i
due maggiori partiti italiani sono speculari. Al Centro il Pd ha ottenuto il 45,4% dei
voti, contro il 31,1% del Pdl. Al Sud è stato il Pdl a prendere il 45,4% dei voti contro il 31,5%
del Pd”.
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“Il Mezzogiorno è l’unica zona del Paese – continua D’Alimonte – in cui Fi e An hanno
preso più voti nel 2008, correndo sotto lo stesso simbolo, di quanti ne avessero presi
nel 2006 quando correvano separati. Per l’esattezza si tratta di 434 mila voti,
concentrati quasi totalmente nei comuni non capoluogo”.
“Il risultato – conclude D’Alimonte – è che il Pdl si presenta oggi come un partito
fortemente meridionalizzato. Oggi la Campania è addirittura la regione dove è più
forte arrivando a oltre il 49% dei voti. Più che in Sicilia”.
Non credo si debbano spendere molte parole per ricordare come il Mezzogiorno sia
l’area a più elevata mobilità elettorale e come sul risultato del 13 e 14 aprile abbia
inciso in modo forse determinante la crisi delle classi dirigenti di centrosinistra in
più di una regione del Sud.
Il carattere chiaro e netto, ma anche aperto e reversibile del risultato elettorale
indica anche gli obiettivi che devono orientare il nostro lavoro nel futuro prossimo:
svolgere la funzione di opposizione, che gli elettori ci hanno assegnato, in modo da
proporre al Paese una credibile alternativa di governo, che possa affermarsi e
prevalere alle prossime elezioni politiche; e radicare il partito nella società italiana,
farne un grande movimento popolare di liberi e forti, per il rinnovamento culturale e
morale della Nazione, e farne una istituzione civile, in grado di proporsi come
strumento di partecipazione dei cittadini alla vita democratica.
Con la costituzione del Governo-ombra, immediatamente all’indomani della
formazione del Governo Berlusconi, abbiamo dato al Paese un chiaro segnale su
come pensiamo debba essere la nostra opposizione: una opposizione scomoda,
proprio in quanto istituzionalmente leale, competente e propositiva.
Un’opposizione, l’ho detto ieri alla Camera, molto diversa da quella fatta dai nostri
avversari nella scorsa legislatura. Netta, incalzante sull’azione del governo, forte di
una propria agenda di priorità, alla ricerca non di vane esibizioni muscolari o di
breve pubblicità da conquistare sventolando striscioni o brindando in un’aula
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parlamentare, ma sempre e comunque del modo migliore per perseguire il bene
del Paese, per rispondere alle domande e alle esigenze degli italiani, per fare
un’Italia più giusta, moderna e sicura.
Un’opposizione coerente con la grande innovazione di cultura politica e di sistema
che la nascita del Partito democratico ha prodotto e rappresenta. Siamo stati noi i
primi a dire che l’essenza della democrazia è questo: aperta e nitida dialettica sui
programmi, leale e trasparente convergenza sulle regole del gioco.
Si stanno creando le condizioni perché questo avvenga. Dobbiamo avere il
coraggio di non avere paura. Il dialogo sì, il consociativismo no. Le regole da
cambiare insieme sì, ma ciascuno con il suo programma. E i nostri sono diversi.
Questione salariale, futuro di Alitalia, pacchetto sicurezza: tanto più cercheremo il
dialogo sulle riforme che servono al buon funzionamento della nostra democrazia,
tanto più saremo alternativi e sapremo mettere in campo un’opposizione
autorevole e credibile sui temi che riguardano il Paese e la vita concreta degli
italiani.
Per riuscire a raggiungere i nostri obiettivi dobbiamo lavorare come una squadra in
cui ognuno gioca un ruolo, senza sovrapposizione di compiti e funzioni. Per questo
alla nascita del Governo Ombra è corrisposta la cessazione di tutti i dipartimenti
tematici dell’esecutivo, mentre sono rimasti gli incarichi relativi all’attività di
costruzione e di gestione del partito.
E ancora per questo ho chiesto a tre ministri del Governo ombra e ai tre coordinatori
delle aree Organizzazione, Comunicazione e Studi, ricerche e formazione, di far
parte insieme al Vicesegretario, al coordinatore dell’attività politica e ai due
capigruppo, di un Coordinamento, tra le funzioni di partito e l’iniziativa politica del
Governo ombra, a cui saranno invitati, per il raccordo con il lavoro parlamentare, i
vicepresidenti di Camera e Senato.
Sia attraverso il Governo-ombra, sia mediante l’iniziativa del partito, sul piano
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nazionale e nelle diverse aree del paese, dobbiamo dunque riuscire a parlare alla
società italiana, alle sue speranze e alle sue angosce, lungo tre grandi direttrici.
La prima è il segmento più dinamico del nostro sistema economico e sociale: il
mondo dell’impresa, grande, ma soprattutto media e piccola. L’impresa che ha
saputo ristrutturarsi e tornare competitiva nel mondo.
L’impresa che chiede un Paese più moderno, più veloce, più semplice. Un fisco
amico dello sviluppo e dunque di chi lavora e produce. Una pubblica
amministrazione più efficiente, quindi meno costosa e capace di rendere servizi di
livello europeo. Un programma di infrastrutture che valorizzi la vocazione dell’Italia
a diventare la grande piattaforma logistica del Mediterraneo. Un sistema
scolastico, formativo, di ricerca che ricomponga la frattura tra lavoro e sapere, che
è il più grave handicap del nostro sistema-paese.
Con questo segmento strategico della società italiana, in campagna elettorale
abbiamo ristabilito un rapporto di comunicazione. Hanno colto nelle nostre parole
uno sforzo di innovazione, un’inedita disponibilità della politica – e della politica di
centrosinistra in particolare – ad ascoltare, a rispettare, a valorizzare la loro
esperienza e il loro punto di vista.
Questa ripresa di comunicazione non si è ancora tradotta, come dicevamo, in
consenso elettorale. Del resto, in campagna elettorale si può raccogliere solo quel
che si è seminato per tempo. Oppure si può seminare, come abbiamo cercato di fare
noi, sapendo che il tempo del raccolto arriverà: a condizione che saremo capaci di
dare prova di umiltà e soprattutto di costanza, se sapremo dimostrare che la nostra
attenzione dura nel tempo, come prova della serietà e dell’affidabilità della nostra
innovazione culturale e programmatica.
La seconda direttrice della nostra iniziativa programmatica e politica deve
muovere verso quei milioni di italiani – lavoratori dipendenti, ma anche autonomi
marginali, giovani precari, pensionati soli, famiglie con figli – che si sentono oggi più
poveri e insicuri e che avvertono la globalizzazione, nelle sue diverse dimensioni,
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dalla competizione economica all’immigrazione, più come una minaccia che come
un’opportunità.
Avevamo capito bene, ascoltando e dialogando con le persone, le famiglie, le
comunità locali, nel lungo viaggio per l’Italia che in campagna elettorale ha
attraversato tutte e cento le province italiane, quanto fosse decisivo riuscire a
trasmettere un messaggio di fiducia e di speranza al mondo del lavoro, ai
pensionati, ai ceti popolari in generale, tentati dal non voto o da un voto di protesta
contro di noi.
Non a caso abbiamo voluto promuovere una Conferenza operaia del Partito
democratico, per tornare a parlare a un mondo e con un mondo che ci ha percepiti
da troppi anni come assenti, lontani, distratti.
E abbiamo elaborato proposte programmatiche per la rivalutazione dei salari,
attraverso l’incremento delle detrazioni sul reddito da lavoro dipendente; per una
crescita e una più incisiva redistribuzione della produttività, attraverso
l’incentivazione della contrattazione di secondo livello; per la difesa del potere
d’acquisto delle pensioni, anche immaginando strumenti che consentano loro di
beneficiare della crescita del reddito nazionale; per l’aiuto alle fasce deboli
attraverso strumenti di difesa dal caro-vita.
Proposte credibili e innovative, che ci hanno consentito di interloquire in campagna
elettorale con aree critiche del nostro elettorato e che ora dovranno essere riprese,
rilanciate, tradotte in impegno quotidiano dal Governo-ombra.
La terza direttrice della nostra iniziativa politica e programmatica ha come
interlocutore quella parte del mondo cattolico moderato, ma popolare e
democratico, che ha ritenuto e ritiene tuttora non abitabile il PD per chi sostenga
una visione politica di ispirazione cristiana.
Vorrei intanto dire che il numero di donne e di uomini che dirigono e animano a tutti i
livelli il nostro partito portando con sé i loro convincimenti di fede e il loro percorso
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politico è sufficientemente ampio a garantire che questa “abitabilità”, confermata
peraltro da idee e posizioni che sempre più hanno il segno di come la convivenza e
la sintesi tra di noi sia non solo possibili ma ricche, feconde, cariche di opportunità
inedite.
E ad ogni modo: con questo mondo sarà interessante e fecondo aprire un dialogo,
innanzi tutto culturale, ben sapendo che molte delle loro inquietudini attraversano
anche il nostro partito, questa comunità di donne e uomini che sta diventando il
Partito democratico.
Penso al tema, tanto complesso quanto affascinante, del rapporto tra la valenza
pubblica delle fedi religiose, il loro contributo alla vitalità della democrazia, e la
laicità delle istituzioni, come presidio della libertà di tutti e del rispetto per tutti.
Penso al tema della grande eredità della tradizione culturale e politica del
cattolicesimo democratico e sociale e alle nuove forme nelle quali essa dovrà
esprimersi, in un contesto segnato dalla fine dell’unità politica dei cattolici e dal
superamento dei partiti identitari.
Penso ai temi “eticamente sensibili”, questioni in parte ricorrenti, in parte
radicalmente inedite, che interrogano l’intelligenza e la coscienza dell’umanità
contemporanea e chiedono alla politica soluzioni capaci di coniugare la libertà con
la responsabilità, sulla base di un avvertito senso del limite.
E penso anche che “eticamente sensibili” non siano solo le grandi questioni che
riguardano la famiglia e la vita, ma anche i grandi temi sociali e civili, come la
promozione dei valori della legalità e dell’onestà; l’impegno sociale a favore dei più
deboli; la promozione di proposte educative che, nella libertà e senza integralismi,
contrastino la desertificazione etica, il vuoto di valori che una società troppo spesso
improntata al mito del desiderio più che al valore della speranza, al primato
dell’apparire su quello dell’essere.
Il risultato elettorale, disaggregato per aree geografiche, ci dice quanto
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imprescindibile, per il successo elettorale del nostro partito, sia il suo radicamento
sociale, la sua presenza fisica nei luoghi di vita, di lavoro, di studio degli italiani.
Non ci nascondiamo certo il risvolto negativo del dato cui facevo riferimento prima,
relativo al nostro risultato nelle grandi città. E’ evidente che se lì le cose vanno
bene, il problema più grande è per noi nel resto del Paese, nella piccola provincia,
nell’Italia profonda, sul territorio, là dove la destra è più capace di dare risposta –
una risposta effimera e di corto respiro, come detto, ma comunque una risposta –
alla condizione di “uomini spaventati” di tanti italiani, per dirlo con Ilvo Diamanti.
Lì noi non siamo arrivati. Lì abbiamo bisogno di lavorare ancora molto per entrare in
contatto con la vita quotidiana delle persone, per essere presenti in modo efficace
nella realtà quotidiana. In una parola per costruire quel radicamento che significa
riconoscimento, identificazione, rappresentanza.
Quella del partito “liquido” è un’espressione tanto brutta quanto astratta, che non
ha mai fatto parte del nostro vocabolario, ma di quello dei commentatori. Il nostro,
al contrario, dovrà essere un partito fisicamente presente in tutti i Comuni italiani,
in tutti i quartieri e le borgate del nostro Paese.
Allo stesso modo sono d’accordo con chi dice che ci si radica non solo aprendo una
sede, ma se si appare vicini, se si è capaci di interpretare, di riconoscere i sentimenti
e le opinioni che si formano tra i cittadini; ci si radica, in alcuni casi, anche
contrastando attivamente opinioni e atteggiamenti inaccettabili, promuovendo la
cultura della legalità o favorendo il superamento dei pregiudizi nei confronti degli
immigrati.
Radicamento e innovazione non sono quindi termini da contrapporre, ma da
coniugare, come del resto risulta chiaro dalla lettera e dallo spirito dello Statuto
approvato all’unanimità dall’Assemblea costituente. Il nostro è, deve essere, un
partito aperto, tutt’altro che privo di corpo e spina dorsale.
Penso al Partito democratico come ad una libera associazione di cittadini, capace
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d’essere fermento culturale e motore di un rinnovamento morale della Nazione.
Come ad una istituzione al servizio della società civile, strumento di incontro, di
discussione politica, di formazione all’impegno civico, di democrazia deliberativa, a
disposizione non solo di una ristretta cerchia di militanti, ma di tutte le persone
interessate.
Interessate, perché questo è il senso alto e per me vero del termine “radicamento”,
ad occuparsi dei problemi concreti delle persone, delle questioni che riguardano da
vicino la loro vita, non di chi dovrà andare ad occupare questo o quel posto in un
consiglio d’amministrazione o se ad un assessore “in quota” all’uno debba
corrispondere un incarico assegnato all’altro.
Nelle prossime settimane dovremo quindi innanzitutto completare la fase di
costituzione dei circoli e di approvazione degli statuti regionali, cosa che avverrà
entro il 31 luglio. Dovremo inoltre costituire, nei termini previsti dallo statuto, il
“registro degli iscritti”, avendo la massima cura nel garantire trasparenza e
correttezza nel trattamento dei dati personali.
Il 20 e il 21 giugno si riunirà l’Assemblea costituente. E più avanti dovremo convocare
l’assemblea degli 8 mila circoli del Partito democratico e una grande Conferenza
nazionale che affronti e fissi le grandi questioni tematiche e le priorità della nostra
azione per rispondere alle domande del Paese e degli italiani.
Dovremo poi prepararci per tempo, sul piano organizzativo e regolamentare,
affinché in vista della prossima tornata amministrativa, le primarie siano la regola e
non l’eccezione nella scelta dei candidati, quanto meno per le cariche
monocratiche di governo.
Può essere che in presenza di un sindaco o di un presidente di provincia uscenti
sostenuti da un largo consenso che decidano di ricandidarsi non siano necessarie.
Per il resto dobbiamo evitare di cadere o ri-cadere nella presunzione d’essere noi,
dirigenti di partito, a scegliere la persona giusta per il posto giusto.
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Può essere che in alcuni casi le primarie creino qualche complicazione ai nostri
equilibri interni, alle legittime aspettative di carriera di questo o quel bravo
dirigente. Ma più spesso ci aiutano a non fare errori. A non perdere il polso
dell’opinione pubblica, a rimotivare gli elettori sfiduciati, a favorire il ricambio.
D’altro canto, con la grande forza che siamo riusciti a mettere in campo nelle aree
urbane abbiamo già dimostrato una capacità di interloquire con l’opinione
pubblica, attraverso i media, a cominciare da internet, che è ormai lo strumento
ordinario di comunicazione dei più giovani. Dobbiamo continuare, mettendo a
punto quello che lo statuto chiama “sistema informativo per la partecipazione”,
facendo di internet un mezzo privilegiato sia per la comunicazione interna sia per la
diffusione delle nostre iniziative, dei nostri progetti, del nostro ruolo di controllo
sull’attività del governo, oltre che il mezzo attraverso cui gli eletti ad ogni livello
istituzionale rendono conto del modo in cui amministrano la cosa pubblica.
Al tempo stesso, dobbiamo rendere più spesso il tessuto delle relazioni “faccia-afaccia”
con i mondi della vita quotidiana, delle professioni, delle imprese, delle
associazioni. Ci serve per riconquistare consensi ma soprattutto per conoscere
quei segmenti della società italiana che ci hanno voltato le spalle, quelli con cui
abbiamo aperto un dialogo ma che non siamo riusciti a persuadere durante la
recente campagna elettorale.
E qui mi rivolgo non solo, ma in particolare, ai parlamentari. Dai meno noti a quelli
con maggiore esperienza, proprio oggi che siamo all’opposizione, devono sapere
che il loro compito non si esaurisce tra questa sede e Palazzo Madama o
Montecitorio. Dobbiamo evitare la sindrome della “propaganda permanente”. Ma
chi ha scelto di fare della politica un’attività a tempo pieno deve sentire l’obbligo di
rimanere permanentemente in contatto con il territorio che lo ha espresso, con gli
interessi, con le energie, le domande di partecipazione, le aspettative di ascolto che
i territori esprimono.
Di questo è fatto e a questo serve un partito federale. Si tratta di un compito che
riguarda anche i componenti del governo ombra, e dunque, ancora, me per primo.
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Nei prossimi cinque anni il viaggio in Italia che ha segnato tra le pagine più belle
della campagna elettorale continuerà con ritmi magari meno frenetici, ma senza
sosta.
Serve infine, ma non meno importante, un significativo investimento nella
formazione. Difficile pensare che il compito di formare la classe dirigente per i
prossimi decenni possa essere affidato a tradizionali scuole di partito, riflesso delle
gerarchie interne e di un impianto dottrinario codificato. Avremo piuttosto bisogno
dell’apporto dei numerosi think tank che già esistono, di Fondazioni come
“Italianieuropei”, di centri studi e strutture come l’Arel, il Nens o Astrid, che siano
strumento di comprensione e di relazione con mondi diversi, della cultura e della
società civile, del nostro Paese e internazionali, come ha detto ieri nella sua
intervista Massimo D’Alema. Avremo forse anche bisogno di nuove istituzioni
culturali indipendenti – che non siano o non si sentano però “estranee” alla politica
– in grado di raccogliere il meglio del mondo scientifico, le capacità di analisi che
maturano nelle imprese, nelle professioni, nei mondi associativi. In grado di aiutarci
a formare un nuovo gruppo dirigente, quadri amministrativi competenti; a coltivare
la passione civile dei tanti giovani che si sono avvicinati al Partito democratico negli
ultimi mesi.
L’investimento nella formazione ci serve anche per colmare i nostri deficit di
comprensione del Paese e delle sue diverse aree territoriali, per creare un
linguaggio e visioni condivise sulla storia repubblicana e sul futuro dell’Italia, per
attenuare le disparità regionali nelle esperienze concrete e nei modi di far politica,
per far maturare nelle giovani generazioni un senso alto dell’impegno politico e
della sua moralità. Una moralità che non si esaurisce in una condotta irreprensibile
nell’uso delle risorse pubbliche e nell’esercizio delle prerogative istituzionali, ma
deve essere segnata appunto dalla competenza, dall’attitudine allo studio, dalla
capacità di analisi, dalla disponibilità all’ascolto, dall’abitudine al rendiconto.
Tutto questo fa parte del cammino che ci attende, dei compiti che abbiamo, degli
obiettivi che dobbiamo raggiungere.
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Abbiamo una responsabilità enorme. Verso i 12 milioni di uomini e di donne che
hanno riposto in noi la loro fiducia, e che non meritano di essere disorientati o
delusi. Verso tutti gli italiani che vivono con ansia e crescente insicurezza questo
tempo nuovo e difficile, e dalla politica, dalla nostra politica, hanno diritto di avere
risposte e soluzioni all’altezza.
Abbiamo altrettanto enormi possibilità. Sta a noi esserne consapevoli, farci trovare
sempre preparati ed essere solidali tra di noi, lavorare duramente e con tenacia per
riuscire a coglierle, per rispondere al compito che in questo momento della nostra
vicenda nazionale è chiamato ad assolvere il Partito democratico.
elettori del Partito democratico, per il risultato delle elezioni del 13 e 14 aprile, non è
semplicemente un fatto emotivo, comprensibile e perfino scontato. E’ esso stesso
un dato politico, da rispettare e da analizzare. E col quale fare i conti fino in fondo,
senza scorciatoie autoconsolatorie.
Quella amarezza e quella delusione ci dicono infatti quanto alto fosse il livello delle
nostre aspettative. Non a caso, ci siamo definiti un partito “a vocazione
maggioritaria”. Perché la nostra vocazione, ossia il senso stesso del nostro esistere
come partito, è quella di rappresentare la maggioranza degli italiani, di essere da
essa considerati la principale risorsa per il buon governo del Paese. Non
raggiungere quella soglia, la maggioranza necessaria a governare, significa
perdere le elezioni, essere e “sentirsi” sconfitti.
Niente, meglio di questo dato, che è di psicologia collettiva ma anche di cultura
politica, misura la distanza che ormai ci separa dalla lunga vicenda del
“bipartitismo imperfetto” della seconda metà del Novecento: quando una delle due
maggiori forze politiche del Paese era “condannata a governare”, mentre l’altra
sapeva di poter aspirare solo a “governare dall’opposizione”. Essa avrebbe
giudicato il nostro risultato odierno, che ci ha visti raccogliere 12 milioni di voti e
attestarci tra il 33 e il 34 per cento, una “impetuosa avanzata”. Noi, giustamente,
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non lo abbiamo giudicato così..
A trent’anni dalla morte di Aldo Moro, il punto più alto e tragico della parabola della
nostra “democrazia difficile”, la democrazia italiana ha mosso un altro passo
importante nella direzione della “democrazia compiuta”.
Dopo la conquista dell’alternanza, che ha disarticolato in modo travagliato e
doloroso le grandi forze politiche del Novecento, dando vita a coalizioni di
transizione, come tali anomale e disordinate, proprio grazie alla nostra iniziativa,
grazie alla nascita del Partito democratico, la grande forza riformista di stampo
europeo che mancava alla democrazia italiana, si va delineando un bipolarismo
nuovo.
Un bipolarismo fondato essenzialmente, anche se non esclusivamente, sulla
competizione per il governo tra due grandi partiti a vocazione maggioritaria.
E’ grazie alla nostra autonoma scelta politica di andare “liberi” alle elezioni, che il
nostro Paese ha conosciuto la discontinuità che serviva per iniziare a guarire da due
sue profonde malattie: la rissosità del confronto politico, la demonizzazione
dell’avversario ridotto sempre e solo a nemico; e l’esasperata frammentazione
politica che significava avere 20 partiti rappresentati in Parlamento e 14 gruppi
presenti alla Camera dei deputati alla fine della scorsa legislatura.
Se oggi, con sei gruppi parlamentari, siamo allineati al resto d’Europa, e se abbiamo
superato la logica delle coalizioni tenute insieme solo dalla volontà di contrapporsi
all’avversario, è perché il Partito democratico ha saputo prendere decisioni
coraggiose e difficili.
Noi abbiamo affermato un principio, imparando la lezione del passato, recente e
meno recente: non basta avere la capacità di vincere, bisogna avere la forza per
governare.
E sia detto subito, per chiarezza: è sulla verifica concreta e quotidiana di questo
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principio, che noi incalzeremo il governo. Chi ha vinto deve dimostrare di saper
sottrarsi al gioco dei veti paralizzanti, delle mediazioni defatiganti, dei ricatti degli
alleati, e governare.
E comunque: è in questa ambivalenza tra sconfitta elettorale e conquista di un
terreno di competizione politica più avanzato e maturo, il significato storico di
queste elezioni. Sbaglieremmo se amputassimo il risultato elettorale, dell’una o
dell’altra delle sue dimensioni.
Proprio in quanto ci siamo lasciati definitivamente alle spalle la cultura
proporzionalistica, per la quale ciò che conta è la forza relativa del proprio partito,
non possiamo non giudicare quella del 13 e 14 aprile una sconfitta della sfida di
governo.
Al tempo stesso, è grazie al risultato del Partito democratico, di dimensioni
“europee” pur nella sconfitta, se la prospettiva dell’alternanza resta aperta e
l’attuale equilibrio contendibile.
Ma è venuto il tempo di dirci che il problema emerso in queste elezioni è lo stesso
che abbiamo da quindici anni, e che giudicare il risultato elettorale con il respiro
corto è un errore politico e culturale molto grave.
L’amarezza e la delusione che hanno attraversato le nostre file ci parlano di una
crescente consapevolezza della radicalità della crisi del centrosinistra, che dal 1994
ad oggi ha governato per sette anni su quattordici, senza però mai riuscire a
diventare maggioranza nel Paese.
Anche quando abbiamo vinto, nel ’96, è stato perché gli altri erano divisi. E nel 2006,
ora ce lo possiamo dire, avevamo sostanzialmente pareggiato. Nonostante i
risultati deludenti di cinque anni di governo Berlusconi, non avevamo conquistato
la maggioranza, una maggioranza autosufficiente, né in Parlamento, né nel Paese.
Non aver ammesso il sostanziale pareggio di quelle elezioni e non averne tratto le
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necessarie conseguenze, innanzi tutto nell’assegnazione delle cariche
istituzionali, temo sia stato un errore grave, che ha segnato negativamente il corso
della legislatura.
La formazione del governo, con il record quantitativo di componenti e lo
spacchettamento delle competenze, esasperato fino alla frammentazione, causa e
conseguenza insieme della caotica litigiosità della coalizione, ha dato al Paese la
sensazione non dell’inizio di un ciclo nuovo, quando prevale la coesione attorno ad
un progetto e ad una leadership che lo incarna, ma dello stadio finale di un ciclo che
si andava concludendo.
E tuttavia, il 12 luglio 2006, il nostro governo raccoglieva la fiducia del 63 per cento
degli italiani. Cinque mesi dopo, il 12 dicembre 2006, la fiducia era crollata al 38 per
cento. Nell’ottobre 2007, chiaro effetto di quanto accaduto nelle settimane
precedenti con il pasticcio politico-parlamentare sul welfare, si arrivava al minimo
storico del 30 per cento. E’ in quel momento, il peggiore, che con le primarie per la
Costituente e per l’elezione del segretario l’idea del Partito democratico ha
mobilitato tre milioni e mezzo di persone. Ed è con la loro partecipazione che è
iniziato il cammino che ha portato alla costruzione di un soggetto politico forte.
Dobbiamo ancora interrogarci a fondo sulle ragioni di quella drammatica crisi nel
rapporto di fiducia tra il governo dell’Unione di centrosinistra e il Paese.
Alcune cose sono evidenti, e sono le stesse che continuano a farmi separare
drasticamente, nel giudizio, l’azione di Romano Prodi e del suo governo da quella
della vecchia coalizione di centrosinistra che lo sosteneva.
A Romano Prodi l’Italia deve molto. Deve l’aver raggiunto, tra il ’96 e il ’98, l’obiettivo
più importante della nostra storia recente, l’ingresso nell’Euro. Deve il risanamento
finanziario compiuto ancora una volta avendo ereditato dal Governo Berlusconi
che l’ha preceduto una situazione drammatica. Vorrei che tutto il paese
riconoscesseRomano Prodi è un grande uomo di Stato, che si è speso pe ril paese
con generosità e disinteresse.
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Mentre si andava dispiegando la nuova, spettacolare azione di risanamento dei
conti pubblici, che ci ha consentito, pochi giorni fa, di ottenere dalla Commissione
europea la revoca della procedura di infrazione per deficit eccessivo, che Prodi
aveva ereditato dal suo predecessore; mentre l’Italia recuperava credibilità
internazionale e riconquistava un ruolo da protagonista nella gestione della crisi
tra Israele e il Libano e, più in generale, nello scacchiere mediterraneo e
mediorientale, cominciava lo stillicidio quotidiano di polemiche, dissensi e
dissociazioni che ha segnato fin dal primo giorno il cammino del governo e ne ha
minato inevitabilmente la credibilità.
L’Afghanistan e le missioni all’estero, la base di Vicenza e la maggioranza costretta
per non spaccarsi a bocciare in Senato una mozione di fiducia al suo stesso ministro
della Difesa, i distinguo e le richieste di modifica sul protocollo sul welfare anche
dopo il voto inequivoco espresso da cinque milioni di lavoratori, ministri in piazza
contro l’esecutivo di cui facevano parte: e, a riassumere tutto, le parole con cui il
leader della Sinistra Arcobaleno, allora Presidente della Camera, dichiarava “fallito
il progetto del centrosinistra” e “chiusa una stagione”, con Prodi etichettato con le
ormai note parole usate da Flaiano per Cardarelli.
Uno spettacolo che come abbiamo visto alle elezioni si è stampato nella memoria
profonda del Paese e che richiederà tempo e fatica per essere cancellato. E’ come
se il Paese avesse avvertito una drammatica crisi di autorevolezza della politica,
proprio mentre doveva affrontare problemi difficili, talvolta angosciosi, legati alla
vita quotidiana delle famiglie e delle persone.
La mia opinione è che dovremo indagare specialmente in due direzioni, che hanno
a che fare coi temi dell’insicurezza e dell’impoverimento.
L’insicurezza, innanzi tutto. Tito Boeri ha osservato come il voto del 13 e 14 aprile
abbia premiato gli unici due partiti che si sono opposti all'indulto. E non a caso.
L’indulto infatti, hanno documentato gli studiosi de “la voce.info”, non solo ha fatto
aumentare l'attività criminale in Italia, ma ha anche modificato la composizione dei
flussi migratori, finendo per attrarre nel nostro paese più criminali che altrove.
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Tanto che oggi quattro italiani su dieci temono gli immigrati, non tanto per il lavoro,
quanto per i reati che possono commettere. Se non si rafforza la repressione
dell’attività criminale, conclude Boeri, in Italia prima o poi saremo costretti a
chiudere le frontiere. A quel punto, importeremo solo immigrazione irregolare, in un
circolo vizioso di illegalità che alimenta nuova illegalità.
Quella del nostro atteggiamento e delle nostre concrete proposte sul tema
sicurezza è una delle rotture programmatiche, delle innovazioni più importanti, che
abbiamo prodotto in questi mesi.
Sostenere, come abbiamo fatto, che il diritto alla sicurezza è fondamentale, che non
è né di destra né di sinistra, che chi governa ha il dovere di fare di tutto per
garantirlo, ad esempio espellendo dall’Italia chi si macchia di reati gravissimi e
mostra pericolosità sociale, ci ha rimesso in sintonia con le esigenze degli italiani,
che non capiscono perché delinquenti pericolosi arrestati dalla polizia vengano
scarcerati dopo due giorni, perché ci vogliano mesi per celebrare un processo
anche quando c’è flagranza di reato, perché i condannati evitino il carcere grazie a
troppi premi e benefici.
Evidentemente, però, dire finalmente cose chiare in proposito non ci ha permesso
di colmare il ritardo accumulato nel tempo, troppo lungo, in cui il vecchio
centrosinistra appariva come quello che negava il problema o per lo meno non lo
comprendeva del tutto. Si è compiuto un errore a mio avviso enorme non
approvando il pacchetto sulla sicurezza predisposto dal ministro Amato. Ci si è a
volte nascosti dietro i numeri, altre volte dietro la convinzione che fosse solo
“percezione” e non problema reale. Niente di più sbagliato. Dal punto di vista
sociale le percezioni contano come i fatti.
Sergio Chiamparino lo ha detto bene, chiarendo che quando si parla di sicurezza “di
percepito non esiste niente, la paura è un dato reale”, e se una persona non esce di
sera perché teme di essere aggredito, non è che lo si può obbligare ad imparare a
memoria i dati dell’Istat per tranquillizzarsi.
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Sulla sicurezza noi dobbiamo proseguire con estrema determinazione, con molta
cura, con grande equilibrio. Avere un atteggiamento forte, come è giusto fare, non
significa accettare una linea puramente repressiva. Capisco che sia più facile, che
sia “popolare”, dire che bisogna far pattugliare il territorio da “ronde” di privati
cittadini, ma non si risolvono i problemi facendo una bandiera della caccia
all’immigrato, superando i limiti della civile convivenza.
A questa pericolosa tendenza dobbiamo reagire, e ricordare che si può e si deve
dare sicurezza e tutela ai cittadini, salvaguardare i loro diritti, assicurare la loro
libertà e la loro serenità, senza comprimere mai, in alcun modo, le garanzie
costituzionali.
E poi, come dicevo, l’impoverimento. Sono quindici anni che l’Italia cresce più o
meno la metà della media europea. Se fossimo cresciuti come gli altri, in tutto
questo periodo, oggi il pil del nostro Paese sarebbe di almeno 10 punti più grande,
qualcosa come 150 miliardi di euro l’anno in più. Una cifra impressionante, che
racconta non solo del nostro ritardo, ma anche dell’impoverimento relativo delle
famiglie italiane, in particolare quelle a reddito fisso, che hanno, per così dire,
stipendi e pensioni in lire e prezzi in euro.
Nel mio discorso di ieri alla Camera dei deputati, in occasione del voto di fiducia al
governo, ho voluto ricordare alcuni dati: siamo al ventitreesimo posto tra i paesi
Ocse per il livello dei salari medi lordi e il divario tende a crescere, oltre
ottocentomila sono le persone con un lavoro precario e con meno di 8 mila euro
l’anno, sei milioni e mezzo di pensionati devono andare avanti con 550 euro al mese,
più di una famiglia su dieci vive al di sotto della soglia di povertà.
Quasi la metà della nostra popolazione possiede solo la licenza di scuola media
inferiore: vale a dire che siamo impreparati e in gravissimo ritardo proprio lì dove si
costruiscono le basi di una cittadinanza consapevole e le condizioni per una solida
competizione economica.
E poi c’è un’altra grave emergenza: siamo in presenza, in Italia, di una crisi
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demografica, di uno squilibrio tra giovani e anziani che riduce già oggi, e rischia di
ridurre sempre di più, le possibilità di crescita del Paese e aggrava il carico
economico e sociale sui futuri giovani e adulti. Gli anziani eccedono di gran lunga i
ragazzi con meno di 15 anni, molto più di quanto non accada negli altri paesi europei,
tanto che nella media europea queste due percentuali sono più o meno allo stesso
livello.
La spiegazione è anche nel fatto che la vita media nel nostro Paese è una delle più
alte del continente, è vero, e questo è indubbiamente un bene. Ma ci sono anche
due elementi che destano grande preoccupazione. La scarsa natalità innanzitutto,
molto più bassa rispetto ad altri paesi europei: abbiamo in Italia 1,35 figli per donna,
contro l’1,84 della Gran Bretagna e il 2 della Francia. C’è un circolo vizioso che va
spezzato: quello tra scarsa occupazione femminile, una rete di servizi non
sufficiente e un conseguente e pressoché inevitabile, in queste condizioni, basso
tasso di natalità.
L’altro elemento di grande preoccupazione riguarda proprio i giovani italiani.
Finiscono gli studi in ritardo rispetto a quanto accade in altri paesi europei, entrano
con ritardo nel mercato del lavoro, mettono su famiglia in ritardo e quindi
contribuiscono in ritardo alla vita sociale ed economica del paese. Ci sono meno
giovani rispetto agli altri paesi concorrenti e in più li facciamo entrare in ritardo nel
circuito produttivo, economico e sociale.
Alfredo Reichlin lo ha detto nel modo migliore, parlando di una moderna “questione
sociale” che sta diventando esplosiva e della quale noi dobbiamo prendere piena
contezza. “Abbiamo parlato poco al Paese – ha detto Alfredo guardando a questi
anni – mentre era sempre più necessario ridefinire la sua agenda vera. Governare
significava anche capire meglio quali sconvolgimenti e rotture di vecchi legami
stavano avvenendo nella società italiana”.
E’ così. Se guardiamo all’Italia davvero avvertiamo l’esistenza di un impasto fatto
di nuove povertà, di senso di ingiustizia, di una crisi profonda del nostro sistema
formativo, di malaffare e illegalità, dell’indebolirsi delle relazioni sociali e umane, di
una paura diffusa che accorcia lo sguardo e rende tutto più piccolo.
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Non mancano le analisi attente, intelligenti, che raccontano di un Paese
spaventato, incerto, stanco, che percepisce il futuro con timore molto più che con
speranza, e che per questo volge lo sguardo più facilmente, in una certa misura
istintivamente, a chi propone una sorta di “ideologia del guscio”, come è stata
efficacemente definita da Aldo Schiavone. A chi propone il ripiegamento difensivo
e una ricetta fatta di muri alzati, di una chiusura verso immigrati e importazioni che
se forse ha il merito di rassicurare nell’immediato, alla distanza significa
essenzialmente sottrarsi alle sfide del nostro tempo, che implicano di necessità il
cambiamento, e non permetteranno di salvarsi stando fermi.
Non sarà con rifugi solo apparenti o con visioni semplicisticamente conservatrici,
identitarie e “protettive”, che l’Italia riprenderà a correre e a crescere. Ha scritto
Eugenio Scalfari: “In un mondo globale questa visione significa costruire
compartimenti stagni che separano le comunità locali dall’insieme. Significa dare
vita ad un Paese non più soltanto duale (il Nord e il Sud) ma con velocità plurime e
con dislivelli crescenti all’interno stesso dei distretti più produttivi e più agiati, e con
contraddizioni mai viste prima”.
Certo, tutti questi non sono temi che riguardano solo noi italiani. Sono i tratti che
delineano gli scenari mondiali e che evidentemente hanno non poco a che fare con
gli assetti politici dei singoli stati, se è vero che se i laburisti perdessero il potere in
Gran Bretagna solo un Paese tra i quindici più grandi dell’Unione Europea avrebbe
un governo di centrosinistra. Sono problemi estremamente concreti che incidono, e
incideranno sempre più, sulle sorti di ogni nazione e sulla vita di milioni e milioni di
persone.
Ha ragione chi osserva come allo spostamento di ricchezza dal lavoro al capitale in
atto da un quarto di secolo, che ha già prodotto l’impoverimento di larghe fasce
delle popolazioni all’interno dei singoli paesi, si sta aggiungendo un altro enorme
spostamento di ricchezza da chi consuma petrolio, metalli, grano, e chi queste cose
le produce.
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A pagare per primi il prezzo di questo sono i cittadini dei paesi consumatori, che già
penalizzati dal fatto che i loro salari e i loro stipendi sono da tempo fermi, devono far
fronte all’aumento dei prezzi dei prodotti energetici e di quelli alimentari. Il tenore
di vita diminuisce, ci si sente più poveri, ci si sente precari. Anche chi il lavoro ce l’ha.
A maggior ragione chi va avanti con contratti di pochi mesi e vive il futuro come una
continua scadenza e un susseguirsi di punti interrogativi.
Esiste, ed avanza, una “nuova povertà” che è incertezza sul futuro, che è
un’insicurezza che viene non solo dall’insufficienza del reddito o dal divario che
aumenta tra quello dei laureati e quello dei lavoratori poco istruiti, ma dalle
domande su come fare a tutelare il proprio stato di salute, a garantire ai propri figli il
necessario livello di educazione scolastica e di conoscenza, a mantenere viva una
propria rete di relazioni sociali, a non veder minacciata la propria stessa incolumità
fisica nel luogo dove si è sempre vissuti e di cui si fa fatica a comprendere ed
accettare i cambiamenti.
E’ quella sensazione di solitudine che è in effetti un fenomeno globale, ma che nel
caso del nostro Paese si accompagna, con effetti evidentemente acuiti, ad altri
elementi: una democrazia che fatica a decidere, una politica screditata agli occhi di
troppi italiani, una società che è stata definita “a coriandoli”, se non addirittura una
“poltiglia”, per il suo essere attraversata in profondità da egoismi, da
corporativismi, da un vuoto di valori che preoccupa e da un sentimento di
appartenenza comune che deve far riflettere per la sua debolezza.
In un contesto come questo, è mancata la chiarezza, nella coalizione di
centrosinistra, attorno a quella regola aurea del riformismo moderno che dice che il
nostro obiettivo è combattere la povertà, non la ricchezza. E invece, la società
italiana ha finito per credere alla cattiva propaganda di quanti, alla nostra sinistra,
invocavano politiche economiche e sociali per dividere il Paese, anziché unirlo,
come si sforzava di fare il governo, attorno al duplice obiettivo di rilanciare la
crescita e ridurre le disuguaglianze.
Le aspettative che pure l’Unione aveva alimentato sono così andate deluse,
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alimentando distacco e dissenso dal nostro governo: sia nel mondo della piccola
impresa e del lavoro autonomo, che si è sentito colpito dalla nostra politica fiscale,
sia in quello del lavoro dipendente e del reddito fisso in generale, che non ha
percepito benefici, a fronte di un aumento generalizzato del costo della vita.
Il tempo, come ha detto Romano Prodi, il tempo normale di una legislatura, avrebbe
messo in luce i benefici che l’azione di governo stava producendo per la finanza
pubblica e per il sistema economico. Ma la precarietà della maggioranza
parlamentare e la fragilità politica della coalizione non hanno potuto garantire al
governo il tempo necessario.
E’ per questo che abbiamo dovuto e voluto aprire una fase politica nuova.
“Vocazione maggioritaria” significa anche questo: avere una visione complessiva
del Paese e dei suoi problemi, e non rinunciare a proporla agli italiani, facendone la
bussola della propria proposta politica e programmatica. Anche nel momento in cui
la corrente sembra andare invece in direzione di una ulteriore chiusura
frammentazione sociale. Proprio quando, come è stato scritto, pare davvero di
essere di fronte ad un “riposizionamento del baricentro mentale della nazione
rispetto alla tradizione sociale e politica che aveva costruito la Repubblica”.
E’ adesso, in una fase complessa e delicata come l’attuale, che c’è più bisogno di
una forza – e può essere solo la nostra, solo il Partito democratico – capace di
assolvere, in questo dato momento storico, ad una funzione nazionale e
“unificante”. Capace di lavorare ad una nuova “autoidentificazione” culturale, alla
creazione di un nuovo “collante” che saldi ciò che da troppo tempo è diviso e che
dall’altra parte non si ha interesse ad unire, perché è più facile cavalcare la paura
che accendere la speranza, è più facile promettere soluzioni parcellizzate e
calibrate in base all’interlocutore di turno: Nord e Sud, operai e imprenditori,
lavoratori autonomi e dipendenti, laici e cattolici.
Ma se tutto questo è vero, io condivido pienamente la conclusione che Alfredo
Reichlin trae nello stesso articolo che prima citavo: altro che “tornare indietro”, il
Partito democratico ha più che mai bisogno di continuare ad operare grandi
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innovazioni, noi abbiamo bisogno di fare definitivamente i conti con l’idea e la
pratica di un riformismo troppo debole, ridefinendo “il profilo popolare moderno del
nuovo partito” e attrezzandoci a quella che è anche una battaglia culturale ampia e
di lunga lena.
Guai se di fronte alle difficoltà cadessimo nella tentazione di voltare la testa
all’indietro. Guai se solo perché la strada si presenta in salita rinunciassimo al
cammino che insieme abbiamo iniziato o cercassimo scorciatoie solo
apparentemente più agevoli.
Anche perché, vorrei condividere questo convincimento con voi, i passi che
abbiamo compiuto fin qui sono molti, e vanno nella giusta direzione. Ci hanno
permesso di risalire da una china assai pericolosa, che ci aveva portato molto in
basso.
Parlo di un anno fa, all’incirca di questi tempi. Ad un distacco e ad una critica nei
nostri confronti apparsi clamorosamente evidenti nelle elezioni amministrative del
maggio 2007. “Cdl al 50 per cento, l’Unione perde 7 punti, Partito democratico a
picco”. Questo il tenore dei titoli di apertura di tutti i quotidiani italiani il 30 maggio
2007 e nei giorni successivi.
“Si prendano le provinciali”, scriveva Ugo Magri su “La Stampa”. “Globalmente il
centrodestra (Udc compresa) raggiunge il 57,1 per cento, con l’Unione al 38,5. Come
dire quasi 20 punti di differenza. Facile obiettare che 4 delle 7 province si trovano nel
cuore della Padania, dunque un divario a favore di Berlusconi era nell’ordine delle
cose. Senonché dal 2002 (provinciali precedenti) questo distacco è aumentato a
dismisura. La Cdl è cresciuta del 4,7 per cento, il centrosinistra ha perso il 7,1. E se si
guarda all’interno delle due coalizioni, si vede da una parte la Lega sugli scudi
(secondo partito dell’alleanza al 13,2), dall’altra si coglie il tonfo dell’Ulivo, cioè il
futuro Partito democratico: calato al 22,4 per cento, meno 8,1 rispetto alla
precedente tornata. Unici a crescere, sulla sinistra, sono Verdi e Comunisti italiani…
Di Pietro riesce a guadagnare uno 0,6 per cento che, con questi chiari di luna,
provoca un ohhh di stupore”.
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Dunque, ci diceva il responso delle urne un anno fa, la crisi di consenso del
centrosinistra era pagata per intero dal Partito democratico.
Voglio essere ancora più chiaro: nessuno di noi si illuda che il risultato raggiunto in
queste elezioni sia un nuovo “zoccolo duro”. Temo che questa definizione si attagli
di più alle cifre che avevamo raggiunto alle provinciali del 2007: poco più del 20%. Il
resto è il prodotto di quella rimonta, di quel recupero di fiducia che abbiamo visto
nelle piazze e in quella campagna elettorale che voglio ringraziare tutti per aver
definito efficace e innovativa.
Quei voti vanno riconquistati ogni giorno. E ci impongono di continuare il progetto
di innovazione che abbiamo avviato politicamente e programmaticamente
qualche mese fa.
Nel maggio dell’anno scorso, erano i nostri elettori a voltarci le spalle, mettendo a
rischio non solo il governo dell’Unione, che difficilmente avrebbe potuto reggere a
lungo un così basso indice di consenso nel Paese con numeri parlamentari tanto
risicati, ma anche il progetto, la prospettiva del PD, che rischiava di abortire a solo
poche settimane dalla storica decisione assunta dai congressi di Ds e Margherita.
Fu sulla base di questa preoccupazione, viva e diffusa, che il Comitato dei 45, che
allora presiedeva alla fase costituente del PD, decise su proposta di Romano Prodi
di far eleggere il 14 ottobre non solo un’Assemblea costituente, ma anche un
segretario nazionale del nuovo partito, in modo, si disse allora, di distinguere le sorti
del Partito democratico da quelle del governo dell’Unione.
Per quanto mi riguarda, ho invece sempre pensato che avremmo potuto dare futuro
al nostro partito solo schierandolo a difesa del governo Prodi. E poi, una volta
consumata la crisi del governo per colpa delle forze che si sono assunte la
responsabilità di far mancare il loro sostegno parlamentare, battendoci con
convinzione e senza risparmio per vincere le elezioni,
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Se ci fossimo ripresentati con l’Unione, avremmo raccolto come schieramento –
nella migliore delle ipotesi, sulla quale personalmente nutro enormi dubbi – gli
stessi voti. Avremmo dunque ugualmente perso le elezioni. Ma la distribuzione di
quel voto sarebbe stata molto diversa, assai probabilmente simile a quella delle
provinciali del 2007, con un PD molto al di sotto della soglia del 30 per cento,
attorniato dal consueto sciame di piccoli e piccolissimi partiti, ciascuno per sé più o
meno vittorioso.
Un quadro politico non solo nefasto per il Partito democratico, che avrebbe visto
rimessa in discussione, da parte degli elettori, la sua stessa esistenza; ma anche
privo di prospettiva, di qualunque prospettiva che non fosse quella di una lunga
opposizione ai margini della società italiana.
Ciò non significa, si badi bene, che questo risultato, il risultato del 13 e 14 aprile, non ci
consegni problemi grandi e rischi seri, anche per il Partito democratico.
Le politiche del 2008 hanno infatti confermato la tendenza al deflusso di voti dal
centrosinistra al centrodestra, che si era già clamorosamente verificato, in scala
ridotta, con le elezioni amministrative parziali del 2007.
Una parte di questo deflusso ha coinvolto l’Udc, che ha ceduto più della metà dei
suoi voti del 2006 al Pdl, quasi interamente compensati da voti in entrata di
provenienza dal centrosinistra, in particolare Udeur e PD.
Il Partito democratico ha visto confermata su scala nazionale la crisi di consenso in
aree centrali dell’elettorato, già emersa nel 2007, essenzialmente a causa del
giudizio critico sulle posizioni “storiche” del centrosinistra in materia di politica
fiscale e di sicurezza.
Abbiamo invece attratto più di un terzo dell’elettorato che alle scorse politiche
aveva votato per una delle formazioni che da ultimo avevano dato vita alla Sinistra
Arcobaleno. E questo è tanto più significativo in un contesto segnato dalla rottura
dell’Unione e dal chiarimento delle posizioni reciproche.
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Col loro comportamento, gli elettori di sinistra hanno dimostrato di essere, a
determinate condizioni, disponibili a sostenere il Partito democratico.
E soprattutto, di non condividere, nella loro stragrande maggioranza, una linea
politica e forse prima ancora una cultura politica, che pensa di poter sostenere i
valori e i principi della sinistra senza fare i conti con il nodo del governo.
Quasi tre elettori di sinistra su quattro hanno ritenuto non interessante la proposta
della Sinistra Arcobaleno, proprio in quanto priva di una proposta di governo. E più
della metà di questi ha deciso di votare il PD, proprio in quanto proposta di governo
credibilmente alternativa a quella della destra.
Ora c’è una sinistra che non è rappresentata in Parlamento, ma che è nel Paese. E’
interesse comune, voglio ripeterlo ancora, che la sua voce non smetta di pesare
nella vita istituzionale e politica. Ed è un nostro impegno dialogare, interloquire con
la sinistra radicale. Noi non possiamo prescindere dalla comprensione di ciò che di
critico si muove nella nostra società, dal malessere che la attraversa e che non si
può rischiare di lasciare alla sola protesta senza ascolto e senza voce. Ci sono
condizioni sociali e aspettative di vita che si sono tradizionalmente riflesse in un
elettorato ma che non per questo, ora, devono restare a noi estranee. L’incontro
che lunedì avrò con Claudio Fava, nuovo coordinatore della Sinistra democratica, è
un passo che facciamo in questa direzione.
Dobbiamo riflettere e capire, perché in tutte le democrazie del mondo i riformisti
vincono quando riescono a sfondare al centro, trattenendo al tempo stesso una
quota significativa dell’elettorato critico, giovanile, marginale, genericamente “di
sinistra”, all’interno di una prospettiva e una cultura di governo.
Così è avvenuto negli Stati Uniti con Clinton, così è accaduto nel Regno Unito del
New Labour, così è avvenuto nella Spagna di Zapatero. Così non è avvenuto alle
ultime elezioni in Germania, dove proprio la autonoma consistenza elettorale di
una sinistra irriducibile alla logica del governo ha impedito a Gerhard Schroeder di
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tornare alla cancelleria e ha imposto alla Spd come unica via praticabile quella
della Grosse Koalition.
Proprio la riflessione su queste esperienze dovrebbe indurci a superare una
discussione sulla falsa alternativa tra alleanze ed autosufficienza, tanto più se
prospettata in termini ormai anacronistici.
In un contesto segnato dalla competizione elettorale e politica tra alternative di
governo, in tutte le democrazie del mondo i protagonisti del confronto sono due
grandi forze politiche a vocazione maggioritaria, che possono a loro volta essere
centro di gravità di un sistema di alleanze con partiti minori, che tuttavia non
contestano in nessun modo all’unico grande partito dell’alleanza la leadership
politica generale. Il che è il contrario di una “ideologia del bipartitismo” che, in
quanto tale, è sostanzialmente estranea alla nostra storia.
Non si tratta di una pretesa astratta, ma della concretissima condizione necessaria
alla stabilità, dunque all’affidabilità e alla credibilità della proposta di governo, a
sua volta condizione del suo successo elettorale.
Il problema che sta oggi davanti a noi non è allora quello di scegliere tra una
classica cultura delle alleanze, tipiche di un contesto proporzionalistico, e
un’astratta e statica pretesa di autosufficienza.
Vorrei dire anzi che non c’è strategia più lontana dalla vocazione maggioritaria che
la pretesa di autosufficienza. La pretesa di autosufficienza esprime un
atteggiamento di chiusura orgogliosa e identitaria, proprio mentre la vocazione
maggioritaria spinge un grande partito come il nostro ad aprirsi ad apporti altri, a
stabilire modalità anche diverse tra loro di convergenza, di collaborazione, di
alleanza.
Non a caso, nei mesi scorsi, nel definire la nostra scelta strategica abbiamo usato
l’espressione “andare liberi”. Per contrastare l’idea della solitudine e
dell’autosufficienza. Per essere liberi di rivolgerci al Paese con un programma
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innovativo, con una proposta di governo credibile e coerente.
Il nostro obiettivo è dunque quello di intraprendere in modo pragmatico una
iniziativa di dialogo a tutto campo con le diverse forze della sinistra, socialiste,
ambientaliste; con forze come l’Udc, oltre che ovviamente con l’Italia dei valori e, su
un piano diverso, con i Radicali, per verificare, col tempo che sarà necessario, la
disponibilità a concorrere non alla costruzione di un generico fronte di tutte le
opposizioni, che riprodurrebbe la vecchia, fallimentare logica delle “coalizioni
contro”, capaci di vincere ma non di governare, bensì alla convergenza politica e
programmatica con la nostra proposta di governo del Paese.
Sarà innanzi tutto nelle amministrazioni locali che metteremo alla prova questa
disponibilità nostra a dar vita, sulla base di linee programmatiche e politiche chiare
e trasparenti, alle coalizioni più ampie possibili, aderenti ai bisogni e alle
prospettive delle diverse realtà territoriali.
La politica delle alleanze non è quindi altra cosa rispetto all’impegno rivolto ad
espandere la nostra capacità di rappresentanza del Paese, tanto meno ne è il
surrogato: ne è piuttosto parte integrante e uno degli aspetti qualificanti.
I risultati elettorali ci consegnano del resto un quadro tutt’altro che immodificabile.
Il 13 e 14 aprile hanno votato per la Camera dei Deputati 36 milioni 452 mila italiani, 1
milione 701 mila in meno del 2006, pari a circa il 4,5%.
Il Popolo della Libertà ha raccolto 13 milioni 629 mila voti, pari al 37,4%, facendo
registrare un calo di quasi un punto percentuale e di circa un milione di voti in cifra
assoluta. In compenso, la Lega Nord ha quasi raddoppiato i suoi voti: 3 milioni oggi,
contro 1 milione 748 mila nel 2006, 8,3% contro il 4,6. Ai voti della Lega al Nord, vanno
aggiunti i 410 mila voti dell’Alleanza per il Sud nel Mezzogiorno.
Il voto al centrodestra raggiunge il livello europeo di una consistente maggioranza
relativa, ma non varca la soglia di quella assoluta. Con i suoi 17 milioni di voti, la
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coalizione radunata dall’on. Berlusconi ha raggiunto il 46,8% dei voti, che il
meccanismo elettorale ha trasformato in un’ampia maggioranza sia alla Camera
che al Senato.
Non è quindi in alcun modo in discussione la legittimazione a governare, da parte
della coalizione che ha vinto le elezioni. Sarà tuttavia opportuno che essa
rammenti di non avere dalla sua parte la maggioranza assoluta degli italiani e a
maggior ragione rinunci quindi a quelle presunzioni di onnipotenza che hanno
caratterizzato in passato il modo di governare del centrodestra.
Allo stesso modo, sarà bene che noi non perdiamo di vista questo dato, che ci
consegna la fotografia di una società aperta e mobile, nella quale non è accaduto
nulla di epocale e di irreversibile: la larga maggioranza relativa conquistata dal
centrodestra resta pienamente contendibile. Non solo, come è ovvio, sul piano
delle regole formali, ma anche su quello sostanziale dei rapporti di forza nel Paese.
Il Partito democratico ha raccolto alla Camera 12 milioni 93 mila voti, pari al 33,1%,
aumentando sia in voti che in percentuale quanto ottenuto dalla lista dell’Ulivo nel
2006. E la stessa cosa, in modo anzi ancora più ampio, è avvenuta al Senato, dove
con 11 milioni 42 mila voti abbiamo raggiunto il 33,6%.
E c’è un dato su cui è importante soffermarsi, perché è indice di come la novità del
PD sia stata compresa, lì dove il fattore del poco tempo oggettivamente a nostra
disposizione è stato “mitigato” da una maggiore facilità di ascolto e di formazione
di opinione.
Nelle città con più di 100 mila abitanti, i rapporti di forza espressi dal voto si ribaltano.
Il Partito democratico è il primo partito, con il 37,9% contro il 37% del PdL. E lo stesso
avviene tra le due alleanze: al nostro 43% corrisponde il 42,7% dei nostri avversari. E
questo non solo grazie al risultato delle regioni in cui siamo più forti. Se si prende il
voto delle città del Nord vale la stessa cosa: il Partito democratico è al 38,8% e il
Popolo della Libertà al 31,5%. Il nostro schieramento è al 44,1% e i nostri avversari, con
tanto di Lega Nord, al 41,8%.
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Vorrei sottolineare come solo due anni fa, alle scorse politiche, la situazione fosse
opposta. Nelle stesse città noi eravamo al 36%, i nostri avversari al 37,5%.
Insomma: sarebbe puro autolesionismo affrontare i problemi non risolti che hanno
contribuito a farci perdere le elezioni mettendo in discussione le scelte che ci hanno
fatto vincere la scommessa politica della nascita del Partito democratico.
Per la prima volta nella sua storia, l’Italia dispone di un grande partito riformista, di
centrosinistra, in grado di mettere in campo una forza elettorale paragonabile a
quella degli altri grandi partiti riformisti europei.
I Laburisti inglesi, con la guida di Tony Blair, hanno vinto le elezioni per tre volte
consecutive con percentuali che hanno oscillato tra il 44,5% del 1997 e il 35,3% del 2005.
I socialisti spagnoli hanno perso le elezioni del 2000 con il 34,4% e le hanno vinte, con
Zapatero, nel 2004 col 42,6% e nel 2008 col 43,6%. I socialdemocratici tedeschi,
superati di misura nel 2005 dalla Cdu, con la quale ora governano nella Grosse
Koalition, hanno registrato il 34,2% dei consensi.
Ma il carattere aperto della struttura politico-elettorale del Paese è reso ancor più
evidente dalla disaggregazione del voto per aree geografiche.
Come ha scritto Roberto D’Alimonte, al Nord, “con il calo di 5 punti percentuali (a
favore della Lega) nel voto al Pdl e la sostanziale tenuta del Pd si è ridotto il divario
tra questi due partiti. Il primo ha oggi il 32,1% dei voti, contro il 29,3% del secondo e il
19,1% della Lega”.
Il 13 e il 14 aprile i voti al Pdl e quelli alla Lega – molti dei quali provenienti dal
centrosinistra – si sono sommati. Ma nulla dice che dovrà essere così per sempre.
Molto dipenderà anche dalla nostra iniziativa politica, sia sul terreno
programmatico che su quello delle alleanze.
Voglio citare di nuovo Chiamparino, ma si potrebbe fare l’esempio anche di altre
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città del Nord Italia, perché ha ragione quando ricorda che nel ’93 la Lega aveva
raggiunto il 21% e per poco non andò al ballottaggio per il Sindaco. Le cose di cui si
parla oggi non sono quindi una novità, ci sono già state e sono state già sconfitte
una volta, visto che nell’area torinese la Lega ha il suo rispettabile 6% dei voti ma a
governare, bene e da diversi anni, siamo noi.
Investendo su noi stessi, sulle nostre idee, sui gruppi dirigenti locali e sulla loro
autonomia di decisione, facendo vivere concretamente l’identità di un partito
federale, possiamo ripetere molte altre volte questa situazione. I recenti
ballottaggi alle amministrative, Vicenza e Sondrio in testa, ce lo dimostrano.
L’importante è avere convinzione e umiltà insieme. La convinzione di aver
cominciato a usare le parole giuste e di aver individuato le proposte in grado di
rispondere alle aspettative dei cittadini del Nord, di aprire le prime sostanziose
crepe nel muro di diffidenza che separava il vecchio centrosinistra e quelle regioni.
L’umiltà di sapere che resta aperto un problema di credibilità da guadagnare, da
conquistare pian piano, con il tempo, dimostrando concretezza e coerenza.
Dimostrando di aver definitivamente capito, e di agire di conseguenza, che la
questione del Nord è innanzitutto l’insufficienza delle risposte della politica
nazionale alle sue domande, è l’assenza o l’incredibile ritardo delle infrastrutture
necessarie agli imprenditori per affrontare la sfida dei loro competitori
internazionali, è il peso di adempimenti burocratici di cui resta ignota l’effettiva
necessità, è lo squilibrio inaccettabile tra la pressione fiscale e i servizi restituiti in
cambio alle comunità, è la mancanza di risposte efficaci quando si tratta di
conciliare bisogno diffuso di manodopera, politiche di integrazione e contrasto
dell’illegalità per garantire sicurezza a imprese e cittadini.
Lasciando il risultato elettorale del Nord, “al Centro e al Sud – scrive ancora
D’Alimonte – la situazione è molto diversa. In queste due aree i rapporti di forza tra i
due maggiori partiti italiani sono speculari. Al Centro il Pd ha ottenuto il 45,4% dei
voti, contro il 31,1% del Pdl. Al Sud è stato il Pdl a prendere il 45,4% dei voti contro il 31,5%
del Pd”.
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“Il Mezzogiorno è l’unica zona del Paese – continua D’Alimonte – in cui Fi e An hanno
preso più voti nel 2008, correndo sotto lo stesso simbolo, di quanti ne avessero presi
nel 2006 quando correvano separati. Per l’esattezza si tratta di 434 mila voti,
concentrati quasi totalmente nei comuni non capoluogo”.
“Il risultato – conclude D’Alimonte – è che il Pdl si presenta oggi come un partito
fortemente meridionalizzato. Oggi la Campania è addirittura la regione dove è più
forte arrivando a oltre il 49% dei voti. Più che in Sicilia”.
Non credo si debbano spendere molte parole per ricordare come il Mezzogiorno sia
l’area a più elevata mobilità elettorale e come sul risultato del 13 e 14 aprile abbia
inciso in modo forse determinante la crisi delle classi dirigenti di centrosinistra in
più di una regione del Sud.
Il carattere chiaro e netto, ma anche aperto e reversibile del risultato elettorale
indica anche gli obiettivi che devono orientare il nostro lavoro nel futuro prossimo:
svolgere la funzione di opposizione, che gli elettori ci hanno assegnato, in modo da
proporre al Paese una credibile alternativa di governo, che possa affermarsi e
prevalere alle prossime elezioni politiche; e radicare il partito nella società italiana,
farne un grande movimento popolare di liberi e forti, per il rinnovamento culturale e
morale della Nazione, e farne una istituzione civile, in grado di proporsi come
strumento di partecipazione dei cittadini alla vita democratica.
Con la costituzione del Governo-ombra, immediatamente all’indomani della
formazione del Governo Berlusconi, abbiamo dato al Paese un chiaro segnale su
come pensiamo debba essere la nostra opposizione: una opposizione scomoda,
proprio in quanto istituzionalmente leale, competente e propositiva.
Un’opposizione, l’ho detto ieri alla Camera, molto diversa da quella fatta dai nostri
avversari nella scorsa legislatura. Netta, incalzante sull’azione del governo, forte di
una propria agenda di priorità, alla ricerca non di vane esibizioni muscolari o di
breve pubblicità da conquistare sventolando striscioni o brindando in un’aula
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parlamentare, ma sempre e comunque del modo migliore per perseguire il bene
del Paese, per rispondere alle domande e alle esigenze degli italiani, per fare
un’Italia più giusta, moderna e sicura.
Un’opposizione coerente con la grande innovazione di cultura politica e di sistema
che la nascita del Partito democratico ha prodotto e rappresenta. Siamo stati noi i
primi a dire che l’essenza della democrazia è questo: aperta e nitida dialettica sui
programmi, leale e trasparente convergenza sulle regole del gioco.
Si stanno creando le condizioni perché questo avvenga. Dobbiamo avere il
coraggio di non avere paura. Il dialogo sì, il consociativismo no. Le regole da
cambiare insieme sì, ma ciascuno con il suo programma. E i nostri sono diversi.
Questione salariale, futuro di Alitalia, pacchetto sicurezza: tanto più cercheremo il
dialogo sulle riforme che servono al buon funzionamento della nostra democrazia,
tanto più saremo alternativi e sapremo mettere in campo un’opposizione
autorevole e credibile sui temi che riguardano il Paese e la vita concreta degli
italiani.
Per riuscire a raggiungere i nostri obiettivi dobbiamo lavorare come una squadra in
cui ognuno gioca un ruolo, senza sovrapposizione di compiti e funzioni. Per questo
alla nascita del Governo Ombra è corrisposta la cessazione di tutti i dipartimenti
tematici dell’esecutivo, mentre sono rimasti gli incarichi relativi all’attività di
costruzione e di gestione del partito.
E ancora per questo ho chiesto a tre ministri del Governo ombra e ai tre coordinatori
delle aree Organizzazione, Comunicazione e Studi, ricerche e formazione, di far
parte insieme al Vicesegretario, al coordinatore dell’attività politica e ai due
capigruppo, di un Coordinamento, tra le funzioni di partito e l’iniziativa politica del
Governo ombra, a cui saranno invitati, per il raccordo con il lavoro parlamentare, i
vicepresidenti di Camera e Senato.
Sia attraverso il Governo-ombra, sia mediante l’iniziativa del partito, sul piano
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nazionale e nelle diverse aree del paese, dobbiamo dunque riuscire a parlare alla
società italiana, alle sue speranze e alle sue angosce, lungo tre grandi direttrici.
La prima è il segmento più dinamico del nostro sistema economico e sociale: il
mondo dell’impresa, grande, ma soprattutto media e piccola. L’impresa che ha
saputo ristrutturarsi e tornare competitiva nel mondo.
L’impresa che chiede un Paese più moderno, più veloce, più semplice. Un fisco
amico dello sviluppo e dunque di chi lavora e produce. Una pubblica
amministrazione più efficiente, quindi meno costosa e capace di rendere servizi di
livello europeo. Un programma di infrastrutture che valorizzi la vocazione dell’Italia
a diventare la grande piattaforma logistica del Mediterraneo. Un sistema
scolastico, formativo, di ricerca che ricomponga la frattura tra lavoro e sapere, che
è il più grave handicap del nostro sistema-paese.
Con questo segmento strategico della società italiana, in campagna elettorale
abbiamo ristabilito un rapporto di comunicazione. Hanno colto nelle nostre parole
uno sforzo di innovazione, un’inedita disponibilità della politica – e della politica di
centrosinistra in particolare – ad ascoltare, a rispettare, a valorizzare la loro
esperienza e il loro punto di vista.
Questa ripresa di comunicazione non si è ancora tradotta, come dicevamo, in
consenso elettorale. Del resto, in campagna elettorale si può raccogliere solo quel
che si è seminato per tempo. Oppure si può seminare, come abbiamo cercato di fare
noi, sapendo che il tempo del raccolto arriverà: a condizione che saremo capaci di
dare prova di umiltà e soprattutto di costanza, se sapremo dimostrare che la nostra
attenzione dura nel tempo, come prova della serietà e dell’affidabilità della nostra
innovazione culturale e programmatica.
La seconda direttrice della nostra iniziativa programmatica e politica deve
muovere verso quei milioni di italiani – lavoratori dipendenti, ma anche autonomi
marginali, giovani precari, pensionati soli, famiglie con figli – che si sentono oggi più
poveri e insicuri e che avvertono la globalizzazione, nelle sue diverse dimensioni,
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dalla competizione economica all’immigrazione, più come una minaccia che come
un’opportunità.
Avevamo capito bene, ascoltando e dialogando con le persone, le famiglie, le
comunità locali, nel lungo viaggio per l’Italia che in campagna elettorale ha
attraversato tutte e cento le province italiane, quanto fosse decisivo riuscire a
trasmettere un messaggio di fiducia e di speranza al mondo del lavoro, ai
pensionati, ai ceti popolari in generale, tentati dal non voto o da un voto di protesta
contro di noi.
Non a caso abbiamo voluto promuovere una Conferenza operaia del Partito
democratico, per tornare a parlare a un mondo e con un mondo che ci ha percepiti
da troppi anni come assenti, lontani, distratti.
E abbiamo elaborato proposte programmatiche per la rivalutazione dei salari,
attraverso l’incremento delle detrazioni sul reddito da lavoro dipendente; per una
crescita e una più incisiva redistribuzione della produttività, attraverso
l’incentivazione della contrattazione di secondo livello; per la difesa del potere
d’acquisto delle pensioni, anche immaginando strumenti che consentano loro di
beneficiare della crescita del reddito nazionale; per l’aiuto alle fasce deboli
attraverso strumenti di difesa dal caro-vita.
Proposte credibili e innovative, che ci hanno consentito di interloquire in campagna
elettorale con aree critiche del nostro elettorato e che ora dovranno essere riprese,
rilanciate, tradotte in impegno quotidiano dal Governo-ombra.
La terza direttrice della nostra iniziativa politica e programmatica ha come
interlocutore quella parte del mondo cattolico moderato, ma popolare e
democratico, che ha ritenuto e ritiene tuttora non abitabile il PD per chi sostenga
una visione politica di ispirazione cristiana.
Vorrei intanto dire che il numero di donne e di uomini che dirigono e animano a tutti i
livelli il nostro partito portando con sé i loro convincimenti di fede e il loro percorso
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politico è sufficientemente ampio a garantire che questa “abitabilità”, confermata
peraltro da idee e posizioni che sempre più hanno il segno di come la convivenza e
la sintesi tra di noi sia non solo possibili ma ricche, feconde, cariche di opportunità
inedite.
E ad ogni modo: con questo mondo sarà interessante e fecondo aprire un dialogo,
innanzi tutto culturale, ben sapendo che molte delle loro inquietudini attraversano
anche il nostro partito, questa comunità di donne e uomini che sta diventando il
Partito democratico.
Penso al tema, tanto complesso quanto affascinante, del rapporto tra la valenza
pubblica delle fedi religiose, il loro contributo alla vitalità della democrazia, e la
laicità delle istituzioni, come presidio della libertà di tutti e del rispetto per tutti.
Penso al tema della grande eredità della tradizione culturale e politica del
cattolicesimo democratico e sociale e alle nuove forme nelle quali essa dovrà
esprimersi, in un contesto segnato dalla fine dell’unità politica dei cattolici e dal
superamento dei partiti identitari.
Penso ai temi “eticamente sensibili”, questioni in parte ricorrenti, in parte
radicalmente inedite, che interrogano l’intelligenza e la coscienza dell’umanità
contemporanea e chiedono alla politica soluzioni capaci di coniugare la libertà con
la responsabilità, sulla base di un avvertito senso del limite.
E penso anche che “eticamente sensibili” non siano solo le grandi questioni che
riguardano la famiglia e la vita, ma anche i grandi temi sociali e civili, come la
promozione dei valori della legalità e dell’onestà; l’impegno sociale a favore dei più
deboli; la promozione di proposte educative che, nella libertà e senza integralismi,
contrastino la desertificazione etica, il vuoto di valori che una società troppo spesso
improntata al mito del desiderio più che al valore della speranza, al primato
dell’apparire su quello dell’essere.
Il risultato elettorale, disaggregato per aree geografiche, ci dice quanto
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imprescindibile, per il successo elettorale del nostro partito, sia il suo radicamento
sociale, la sua presenza fisica nei luoghi di vita, di lavoro, di studio degli italiani.
Non ci nascondiamo certo il risvolto negativo del dato cui facevo riferimento prima,
relativo al nostro risultato nelle grandi città. E’ evidente che se lì le cose vanno
bene, il problema più grande è per noi nel resto del Paese, nella piccola provincia,
nell’Italia profonda, sul territorio, là dove la destra è più capace di dare risposta –
una risposta effimera e di corto respiro, come detto, ma comunque una risposta –
alla condizione di “uomini spaventati” di tanti italiani, per dirlo con Ilvo Diamanti.
Lì noi non siamo arrivati. Lì abbiamo bisogno di lavorare ancora molto per entrare in
contatto con la vita quotidiana delle persone, per essere presenti in modo efficace
nella realtà quotidiana. In una parola per costruire quel radicamento che significa
riconoscimento, identificazione, rappresentanza.
Quella del partito “liquido” è un’espressione tanto brutta quanto astratta, che non
ha mai fatto parte del nostro vocabolario, ma di quello dei commentatori. Il nostro,
al contrario, dovrà essere un partito fisicamente presente in tutti i Comuni italiani,
in tutti i quartieri e le borgate del nostro Paese.
Allo stesso modo sono d’accordo con chi dice che ci si radica non solo aprendo una
sede, ma se si appare vicini, se si è capaci di interpretare, di riconoscere i sentimenti
e le opinioni che si formano tra i cittadini; ci si radica, in alcuni casi, anche
contrastando attivamente opinioni e atteggiamenti inaccettabili, promuovendo la
cultura della legalità o favorendo il superamento dei pregiudizi nei confronti degli
immigrati.
Radicamento e innovazione non sono quindi termini da contrapporre, ma da
coniugare, come del resto risulta chiaro dalla lettera e dallo spirito dello Statuto
approvato all’unanimità dall’Assemblea costituente. Il nostro è, deve essere, un
partito aperto, tutt’altro che privo di corpo e spina dorsale.
Penso al Partito democratico come ad una libera associazione di cittadini, capace
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d’essere fermento culturale e motore di un rinnovamento morale della Nazione.
Come ad una istituzione al servizio della società civile, strumento di incontro, di
discussione politica, di formazione all’impegno civico, di democrazia deliberativa, a
disposizione non solo di una ristretta cerchia di militanti, ma di tutte le persone
interessate.
Interessate, perché questo è il senso alto e per me vero del termine “radicamento”,
ad occuparsi dei problemi concreti delle persone, delle questioni che riguardano da
vicino la loro vita, non di chi dovrà andare ad occupare questo o quel posto in un
consiglio d’amministrazione o se ad un assessore “in quota” all’uno debba
corrispondere un incarico assegnato all’altro.
Nelle prossime settimane dovremo quindi innanzitutto completare la fase di
costituzione dei circoli e di approvazione degli statuti regionali, cosa che avverrà
entro il 31 luglio. Dovremo inoltre costituire, nei termini previsti dallo statuto, il
“registro degli iscritti”, avendo la massima cura nel garantire trasparenza e
correttezza nel trattamento dei dati personali.
Il 20 e il 21 giugno si riunirà l’Assemblea costituente. E più avanti dovremo convocare
l’assemblea degli 8 mila circoli del Partito democratico e una grande Conferenza
nazionale che affronti e fissi le grandi questioni tematiche e le priorità della nostra
azione per rispondere alle domande del Paese e degli italiani.
Dovremo poi prepararci per tempo, sul piano organizzativo e regolamentare,
affinché in vista della prossima tornata amministrativa, le primarie siano la regola e
non l’eccezione nella scelta dei candidati, quanto meno per le cariche
monocratiche di governo.
Può essere che in presenza di un sindaco o di un presidente di provincia uscenti
sostenuti da un largo consenso che decidano di ricandidarsi non siano necessarie.
Per il resto dobbiamo evitare di cadere o ri-cadere nella presunzione d’essere noi,
dirigenti di partito, a scegliere la persona giusta per il posto giusto.
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Può essere che in alcuni casi le primarie creino qualche complicazione ai nostri
equilibri interni, alle legittime aspettative di carriera di questo o quel bravo
dirigente. Ma più spesso ci aiutano a non fare errori. A non perdere il polso
dell’opinione pubblica, a rimotivare gli elettori sfiduciati, a favorire il ricambio.
D’altro canto, con la grande forza che siamo riusciti a mettere in campo nelle aree
urbane abbiamo già dimostrato una capacità di interloquire con l’opinione
pubblica, attraverso i media, a cominciare da internet, che è ormai lo strumento
ordinario di comunicazione dei più giovani. Dobbiamo continuare, mettendo a
punto quello che lo statuto chiama “sistema informativo per la partecipazione”,
facendo di internet un mezzo privilegiato sia per la comunicazione interna sia per la
diffusione delle nostre iniziative, dei nostri progetti, del nostro ruolo di controllo
sull’attività del governo, oltre che il mezzo attraverso cui gli eletti ad ogni livello
istituzionale rendono conto del modo in cui amministrano la cosa pubblica.
Al tempo stesso, dobbiamo rendere più spesso il tessuto delle relazioni “faccia-afaccia”
con i mondi della vita quotidiana, delle professioni, delle imprese, delle
associazioni. Ci serve per riconquistare consensi ma soprattutto per conoscere
quei segmenti della società italiana che ci hanno voltato le spalle, quelli con cui
abbiamo aperto un dialogo ma che non siamo riusciti a persuadere durante la
recente campagna elettorale.
E qui mi rivolgo non solo, ma in particolare, ai parlamentari. Dai meno noti a quelli
con maggiore esperienza, proprio oggi che siamo all’opposizione, devono sapere
che il loro compito non si esaurisce tra questa sede e Palazzo Madama o
Montecitorio. Dobbiamo evitare la sindrome della “propaganda permanente”. Ma
chi ha scelto di fare della politica un’attività a tempo pieno deve sentire l’obbligo di
rimanere permanentemente in contatto con il territorio che lo ha espresso, con gli
interessi, con le energie, le domande di partecipazione, le aspettative di ascolto che
i territori esprimono.
Di questo è fatto e a questo serve un partito federale. Si tratta di un compito che
riguarda anche i componenti del governo ombra, e dunque, ancora, me per primo.
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Nei prossimi cinque anni il viaggio in Italia che ha segnato tra le pagine più belle
della campagna elettorale continuerà con ritmi magari meno frenetici, ma senza
sosta.
Serve infine, ma non meno importante, un significativo investimento nella
formazione. Difficile pensare che il compito di formare la classe dirigente per i
prossimi decenni possa essere affidato a tradizionali scuole di partito, riflesso delle
gerarchie interne e di un impianto dottrinario codificato. Avremo piuttosto bisogno
dell’apporto dei numerosi think tank che già esistono, di Fondazioni come
“Italianieuropei”, di centri studi e strutture come l’Arel, il Nens o Astrid, che siano
strumento di comprensione e di relazione con mondi diversi, della cultura e della
società civile, del nostro Paese e internazionali, come ha detto ieri nella sua
intervista Massimo D’Alema. Avremo forse anche bisogno di nuove istituzioni
culturali indipendenti – che non siano o non si sentano però “estranee” alla politica
– in grado di raccogliere il meglio del mondo scientifico, le capacità di analisi che
maturano nelle imprese, nelle professioni, nei mondi associativi. In grado di aiutarci
a formare un nuovo gruppo dirigente, quadri amministrativi competenti; a coltivare
la passione civile dei tanti giovani che si sono avvicinati al Partito democratico negli
ultimi mesi.
L’investimento nella formazione ci serve anche per colmare i nostri deficit di
comprensione del Paese e delle sue diverse aree territoriali, per creare un
linguaggio e visioni condivise sulla storia repubblicana e sul futuro dell’Italia, per
attenuare le disparità regionali nelle esperienze concrete e nei modi di far politica,
per far maturare nelle giovani generazioni un senso alto dell’impegno politico e
della sua moralità. Una moralità che non si esaurisce in una condotta irreprensibile
nell’uso delle risorse pubbliche e nell’esercizio delle prerogative istituzionali, ma
deve essere segnata appunto dalla competenza, dall’attitudine allo studio, dalla
capacità di analisi, dalla disponibilità all’ascolto, dall’abitudine al rendiconto.
Tutto questo fa parte del cammino che ci attende, dei compiti che abbiamo, degli
obiettivi che dobbiamo raggiungere.
- 29 -
Abbiamo una responsabilità enorme. Verso i 12 milioni di uomini e di donne che
hanno riposto in noi la loro fiducia, e che non meritano di essere disorientati o
delusi. Verso tutti gli italiani che vivono con ansia e crescente insicurezza questo
tempo nuovo e difficile, e dalla politica, dalla nostra politica, hanno diritto di avere
risposte e soluzioni all’altezza.
Abbiamo altrettanto enormi possibilità. Sta a noi esserne consapevoli, farci trovare
sempre preparati ed essere solidali tra di noi, lavorare duramente e con tenacia per
riuscire a coglierle, per rispondere al compito che in questo momento della nostra
vicenda nazionale è chiamato ad assolvere il Partito democratico.
Intervento del segretario del Partito Democratico Walter Veltroni. Dichiarazione di voto sulla fiducia al governo
Piero Calamandrei, uno dei padri fondatori della nostra Costituzione, scrisse che «il
regime parlamentare non è quello dove la maggioranza ha sempre ragione, ma
quello dove sempre hanno diritto di essere discusse le ragioni della minoranza», e
aggiungeva: «quest'ultima, a sua volta, deve avere rispetto per la legittimità
elettorale della maggioranza e la legittimità costituzionale del Governo».
Il diritto dell'opposizione e il rispetto della legittimità della maggioranza sono
l'anima di una democrazia che funzioni. Questo Parlamento, nel Novecento, ha
conosciuto tragicamente un tempo in cui veniva negato il diritto di opporsi. Da
allora, al prezzo di sacrifici e di dolore, il nostro Paese ha fatto davvero molta strada e in questi mesi credo abbia accelerato la sua corsa verso la possibilità di essere una salda e ben funzionante democrazia europea.
Rivendico al Partito Democratico il merito di aver introdotto ragioni profonde di
discontinuità, rispetto ad un Paese che soffriva di una duplice e grave malattia:
l'esasperata frammentazione politica e la costante demonizzazione
dell'avversario. All'onorevole Casini, che ha detto cose condivisibili da questo punto di vista, voglio dire che è vero: abbiamo fatto politicamente ciò che, attraverso le riforme istituzionali e la legge elettorale, non siete riusciti a fare.
Se oggi questo Parlamento vede sei gruppi, come nel resto d'Europa, e non più i
quattordici dell'ultima legislatura, e non più i trentanove partiti ai quali ha fatto
riferimento ieri l'onorevole Fassino, se sono finite le coalizioni assembleari messe
insieme solo dalla contrapposizione nei confronti dell'avversario, ciò - lo hanno
riconosciuto tutti - è perché il Partito Democratico ha avuto per primo il coraggio di compiere scelte difficili e innovative.
Lei, signor Presidente del Consiglio dei ministri, inizia oggi il suo quarto mandato e il suo settimo anno da Presidente del Consiglio dei ministri. È evidente ed oggettivo che lei porti una parte importante di responsabilità per ciò che è avvenuto o non è avvenuto in questo Paese. Da quindici anni, i Governi in Italia durano al massimo una legislatura e un clima permanente di scontro ideologico ha impedito che si potesse generare quella stagione lunga di riformismo e di modernizzazione di cui l'Italia ha bisogno e che altri Paesi hanno conosciuto.
Questo Governo ha una maggioranza parlamentare forte, come è già successo tra il
2001 e il 2006. Tuttavia, ciò non impedì che in quel tempo vi fossero ventiquattro
ministri sostituiti, un centinaio di volte in cui il Governo «andò sotto» nelle aule
parlamentari e una crisi di Governo a metà mandato. Infatti, conta la forza
parlamentare, ma conta di più la forza politica, l'esistenza di un disegno alto e forte di Governo e di cambiamento del Paese. Non ho trovato questo disegno nel suo, pur positivo, discorso di ieri.
Il dato elettorale è chiaro ed ho voluto dargliene atto con un gesto - il
riconoscimento della vittoria dell'avversario - che non è usuale nella vita politica
italiana. Tuttavia, alla responsabilità degli sconfitti si deve accompagnare
l'equilibrio dei vincitori. Non pensate di avere «il Paese in mano», come qualcuno ha
detto. Cito un solo dato, non oppugnabile: avete avuto 17 milioni di voti, pari al 46,8 per cento, ma non hanno votato per voi (hanno votato per altro) 19 milioni e mezzo di italiani, pari al 53,2 per cento. Credo nasca dalla consapevolezza di questo
elementare dato, la decisione da parte sua di usare, come ha fatto ieri, toni
assolutamente diversi dal passato.
Chi vuole male all'Italia può lamentarsene, mosso dalla voglia di proseguire in un
clima di scontro frontale che ha fatto male al nostro Paese per molti anni. Tuttavia,
una cosa dev'essere chiara, signor Presidente del Consiglio dei ministri: le parole
dette e quelle non dette contano, ma per essere sinceri rischia di essere troppo
facile, quando si è all'opposizione o in campagna elettorale, usare toni esasperati e
poi, quando si è al Governo, sollecitare il dialogo e il confronto. Tuttavia, prendo per buone le sue parole, pronunciate davanti agli italiani, e le ribadisco che mai si potrà aspettare da noi un'opposizione come quella che, nella scorsa legislatura,
sventolava striscioni e brindava nelle aule parlamentari.
Conoscerà un'opposizione seria, forte e responsabile: l'opposizione di una forza
democratica alternativa; un'opposizione che avanzerà proposte, fisserà una
propria agenda di priorità, convergerà quando sarà d'accordo e si opporrà quando
non lo sarà; un'opposizione democratica che avrà nel Governo ombra una struttura
fondamentale di iniziativa e di proposta; l'opposizione democratica di un Paese
unito; quell'unità che il Presidente della Repubblica Napolitano ha più volte indicato come necessità della vita nazionale.
L'opposizione è costituita in questo Parlamento da diverse forze con le quale ci
proponiamo un cammino di dialogo e di convergenza. Voglio dire a noi tutti che
dobbiamo abituarci anche ad ascoltare parole e opinioni che non condividiamo, ma
ad ascoltarle con il rispetto che si deve a ciascuno in un'aula parlamentare - lo dico a proposito dell'intervento dell'onorevole Di Pietro. Ma ci sono anche forze di
opposizione presenti nel Paese ma non in Parlamento, la cui voce è interesse
comune: non smettano di dialogare e di pesare nella vita istituzionale e politica.
L'Italia deve voltare pagina e ciascuno di noi in ragione del proprio ruolo deve dare il proprio contributo. Voglio raccogliere il suo invito, signor Presidente, e ribadire qui il nostro intento da subito di approvare misure che diano velocità e trasparenza alla macchina decisionale dello Stato: la riduzione del numero dei parlamentari, l'idea di una Camera legislativa e una delle regioni, una forte riduzione dei costi della politica e più ampie e necessarie garanzie di autonomia e libertà di informazione, a partire della necessaria indipendenza del servizio pubblico televisivo. È qui che vedremo subito se il dialogo sarà vero e genererà decisioni condivise. C'è il pacchetto di proposte già esaminate dalla Commissione presieduta nella scorsa legislatura dall'onorevole Luciano Violante dal quale siamo pronti a ripartire. Allo stesso modo la invitiamo a portare subito in Parlamento la ratifica del Trattato di Lisbona, che costituisce un atto fondamentale per ogni Stato europeo che abbia a cuore il destino sociale e istituzionale dell'Unione.
Ma la vera sfida tra noi sarà sui grandi temi sociali. Questo Paese ha bisogno di un
grande cambiamento. Esso è divorato dall'ansia, dall'insicurezza, dalla paura: sono
certo ottimi materiali sui quali si può - e lo si è fatto - costruire l'edificio di una vittoria elettorale.
Diceva Roosevelt nel 1929: «L'unica cosa di cui dobbiamo aver paura, è la paura
stessa». Ci vuole poco a dire che si cancelleranno tutte le tasse, si espelleranno tutti gli immigrati, si garantirà la sicurezza di tutti, così come è facile - certi ideologismi di destra e di sinistra lo fanno sistematicamente - affermare che sia giusta ogni innovazione, purché sia lontana da sé.
L'ideologia del guscio, l'illusione che il mio luogo sia al riparo e possa astrarsi dal luogo di tutti, l'illusione che la mia vita sia separabile da quella degli altri, l'idea in sostanza di una società socialmente egoista con il fiato corto, convinta che la soluzione di ogni problema sia la sua semplice rimozione alla vista: il tema della sicurezza parla di questo, signor Presidente.
Gli immigrati che lavorano costituiscono il 6 per cento (qualcuno sostiene di più) del prodotto interno lordo del nostro Paese. L'economia e la società italiana hanno
bisogno di loro; sono persone che fuggono dalla miseria, non diverse dagli italiani
che attraversarono il mondo con la valigia di cartone in mano. Dobbiamo accogliere
chi vuole venire a lavorare e rendere più facile che ciò accada. Lo ha detto ieri
Giuseppe Pisanu: «L'unica strategia efficace di lotta all'immigrazione clandestina è
l'uso intelligente dell'immigrazione regolare» (Applausi dei deputati dei gruppi
Partito Democratico e Italia dei Valori).
Dobbiamo essere assolutamente severi contro ogni forma di criminalità; dobbiamo
espellere senza riserve chi mostra pericolosità sociale; dobbiamo far scontare le
pene a chi ha violato la sicurezza di un cittadino innocente, in primo luogo con
severità a chi distrugge la vita di un bambino o a chi considera il corpo di una donna come oggetto di propria proprietà. Ma attenzione alla caccia all'immigrato,
attenzione alle ronde, attenzione alla logica che ai più forti sia consentito stabilire se ci si possa rifiutare o meno di offrire una sigaretta o di portare i capelli in un certo modo.
Chi come me è convinto della giustezza del «pacchetto sicurezza» presentato dal
Governo Prodi e dal Ministro Amato nella scorsa legislatura ed è convinto - e lo ha
detto - che il vecchio centrosinistra abbia compiuto un errore enorme a non
approvarlo, sottovalutando il diritto di ogni cittadino a vivere tranquillo, chi come
me pensa questo sente però bisogno che non si smarriscano mai quei valori di
inclusione, di attenzione a chi vive nel disagio, di coscienza dei diritti che sono parte della nostra stessa identità di cittadini europei.
L'Italia vive con ansia e con una crescente insicurezza questo tempo nuovo e
difficile in cui emergono con sempre maggiore evidenza i segni di nuove difficoltà e
di autentiche nuove povertà.
Il salario medio lordo italiano è il ventitreesimo dei Paesi OCSE e cresce la
differenza con le altre nazioni. Più di ottocentomila persone lavorano in condizioni
precarie con meno di ottomila euro all'anno; sei milioni e mezzo di pensionati
percepiscono 550 euro al mese e tre milioni sono tra gli 800 e i 1.200 euro.
Nel 2006, secondo l'ISTAT, alla fine del suo mandato pieno, gli individui poveri erano quasi otto milioni e più di una famiglia su dieci oggi vive al di sotto della soglia di povertà. Quasi la metà della nostra popolazione in età adulta ha la licenza di scuola media inferiore.
L'Italia è un grande Paese, ma ha grandissimi problemi. La cultura dei «no», i vizi
ideologici hanno impedito l'innovazione infrastrutturale e tecnologica e tanti
conservatorismi di destra e di sinistra hanno frenato la costruzione di mercati
aperti, di liberalizzazioni, di nuove competitività, di valorizzazione del merito e del talento, di nuove frontiere di equità sociale, di nuove scelte ambientali.
L'Italia deve ripartire e deve farlo in un contesto internazionale molto difficile, figlio di una globalizzazione non governata e di uno squilibrio ormai insopportabile, nei singoli Paesi e nel mondo, tra chi ha e chi non ha e oggi anche tra chi produce e chi consuma e tra chi rispetta i diritti dei lavoratori e chi non lo fa. Romano Prodi, come nel 1996, ha avuto, ancora una volta, il merito di risanare la situazione finanziaria del Paese ed io voglio, ancora una volta, dargliene atto, in quest'aula, oggi. Lo dice la rimozione della procedura di infrazione europea e lo dicono i dati, confermati da Bankitalia, di una forte capacità di contrastare l'evasione fiscale incrementando le entrate; lo dice la riduzione del debito e quella del deficit, come ricordato ieri da Pier Luigi Bersani.
Al suo Governo - e concludo - spetta ora l'onere di dimostrare ciò che ha sostenuto
in campagna elettorale: che è possibile ridurre - come noi auspichiamo e
sosterremo - la pressione fiscale e garantire misure - come noi auspichiamo e
sosterremo - per aiutare gli stipendi, i salari e le pensioni più basse che sono la vera urgenza di questo Paese.
C'è solo un modo per liberare risorse: continuare la lotta all'evasione, ridurre la
spesa pubblica, semplificare questo Paese lento e con ancora elevati gradi di
corruzione della vita pubblica e di influenza dei poteri criminali. È il riformismo
moderno, almeno come noi lo intendiamo: non possiamo e non dobbiamo chiedere
a lei di assolvere questo compito.
Voteremo contro il suo Governo, ma convergeremo su ogni scelta che vada nella
direzione giusta: quella di un'Italia più equa, più moderna e più sicura.
L'opposizione la si fa pensando agli interessi profondi del Paese, pensando al futuro
dei nostri ragazzi, alla fatica ed al talento di chi lavora ed intraprende, ai timori dei nostri anziani. La si fa mossi non dalla volontà di mostrare i muscoli, ma di mostrare l'intelligenza ed il senso di responsabilità.
L'Italia giudicherà, nei prossimi mesi, chi avrà assolto al compito che qui ha preso.
Noi, per parte nostra, lo faremo da forza alternativa, con coraggio, apertura e
convinzione.
regime parlamentare non è quello dove la maggioranza ha sempre ragione, ma
quello dove sempre hanno diritto di essere discusse le ragioni della minoranza», e
aggiungeva: «quest'ultima, a sua volta, deve avere rispetto per la legittimità
elettorale della maggioranza e la legittimità costituzionale del Governo».
Il diritto dell'opposizione e il rispetto della legittimità della maggioranza sono
l'anima di una democrazia che funzioni. Questo Parlamento, nel Novecento, ha
conosciuto tragicamente un tempo in cui veniva negato il diritto di opporsi. Da
allora, al prezzo di sacrifici e di dolore, il nostro Paese ha fatto davvero molta strada e in questi mesi credo abbia accelerato la sua corsa verso la possibilità di essere una salda e ben funzionante democrazia europea.
Rivendico al Partito Democratico il merito di aver introdotto ragioni profonde di
discontinuità, rispetto ad un Paese che soffriva di una duplice e grave malattia:
l'esasperata frammentazione politica e la costante demonizzazione
dell'avversario. All'onorevole Casini, che ha detto cose condivisibili da questo punto di vista, voglio dire che è vero: abbiamo fatto politicamente ciò che, attraverso le riforme istituzionali e la legge elettorale, non siete riusciti a fare.
Se oggi questo Parlamento vede sei gruppi, come nel resto d'Europa, e non più i
quattordici dell'ultima legislatura, e non più i trentanove partiti ai quali ha fatto
riferimento ieri l'onorevole Fassino, se sono finite le coalizioni assembleari messe
insieme solo dalla contrapposizione nei confronti dell'avversario, ciò - lo hanno
riconosciuto tutti - è perché il Partito Democratico ha avuto per primo il coraggio di compiere scelte difficili e innovative.
Lei, signor Presidente del Consiglio dei ministri, inizia oggi il suo quarto mandato e il suo settimo anno da Presidente del Consiglio dei ministri. È evidente ed oggettivo che lei porti una parte importante di responsabilità per ciò che è avvenuto o non è avvenuto in questo Paese. Da quindici anni, i Governi in Italia durano al massimo una legislatura e un clima permanente di scontro ideologico ha impedito che si potesse generare quella stagione lunga di riformismo e di modernizzazione di cui l'Italia ha bisogno e che altri Paesi hanno conosciuto.
Questo Governo ha una maggioranza parlamentare forte, come è già successo tra il
2001 e il 2006. Tuttavia, ciò non impedì che in quel tempo vi fossero ventiquattro
ministri sostituiti, un centinaio di volte in cui il Governo «andò sotto» nelle aule
parlamentari e una crisi di Governo a metà mandato. Infatti, conta la forza
parlamentare, ma conta di più la forza politica, l'esistenza di un disegno alto e forte di Governo e di cambiamento del Paese. Non ho trovato questo disegno nel suo, pur positivo, discorso di ieri.
Il dato elettorale è chiaro ed ho voluto dargliene atto con un gesto - il
riconoscimento della vittoria dell'avversario - che non è usuale nella vita politica
italiana. Tuttavia, alla responsabilità degli sconfitti si deve accompagnare
l'equilibrio dei vincitori. Non pensate di avere «il Paese in mano», come qualcuno ha
detto. Cito un solo dato, non oppugnabile: avete avuto 17 milioni di voti, pari al 46,8 per cento, ma non hanno votato per voi (hanno votato per altro) 19 milioni e mezzo di italiani, pari al 53,2 per cento. Credo nasca dalla consapevolezza di questo
elementare dato, la decisione da parte sua di usare, come ha fatto ieri, toni
assolutamente diversi dal passato.
Chi vuole male all'Italia può lamentarsene, mosso dalla voglia di proseguire in un
clima di scontro frontale che ha fatto male al nostro Paese per molti anni. Tuttavia,
una cosa dev'essere chiara, signor Presidente del Consiglio dei ministri: le parole
dette e quelle non dette contano, ma per essere sinceri rischia di essere troppo
facile, quando si è all'opposizione o in campagna elettorale, usare toni esasperati e
poi, quando si è al Governo, sollecitare il dialogo e il confronto. Tuttavia, prendo per buone le sue parole, pronunciate davanti agli italiani, e le ribadisco che mai si potrà aspettare da noi un'opposizione come quella che, nella scorsa legislatura,
sventolava striscioni e brindava nelle aule parlamentari.
Conoscerà un'opposizione seria, forte e responsabile: l'opposizione di una forza
democratica alternativa; un'opposizione che avanzerà proposte, fisserà una
propria agenda di priorità, convergerà quando sarà d'accordo e si opporrà quando
non lo sarà; un'opposizione democratica che avrà nel Governo ombra una struttura
fondamentale di iniziativa e di proposta; l'opposizione democratica di un Paese
unito; quell'unità che il Presidente della Repubblica Napolitano ha più volte indicato come necessità della vita nazionale.
L'opposizione è costituita in questo Parlamento da diverse forze con le quale ci
proponiamo un cammino di dialogo e di convergenza. Voglio dire a noi tutti che
dobbiamo abituarci anche ad ascoltare parole e opinioni che non condividiamo, ma
ad ascoltarle con il rispetto che si deve a ciascuno in un'aula parlamentare - lo dico a proposito dell'intervento dell'onorevole Di Pietro. Ma ci sono anche forze di
opposizione presenti nel Paese ma non in Parlamento, la cui voce è interesse
comune: non smettano di dialogare e di pesare nella vita istituzionale e politica.
L'Italia deve voltare pagina e ciascuno di noi in ragione del proprio ruolo deve dare il proprio contributo. Voglio raccogliere il suo invito, signor Presidente, e ribadire qui il nostro intento da subito di approvare misure che diano velocità e trasparenza alla macchina decisionale dello Stato: la riduzione del numero dei parlamentari, l'idea di una Camera legislativa e una delle regioni, una forte riduzione dei costi della politica e più ampie e necessarie garanzie di autonomia e libertà di informazione, a partire della necessaria indipendenza del servizio pubblico televisivo. È qui che vedremo subito se il dialogo sarà vero e genererà decisioni condivise. C'è il pacchetto di proposte già esaminate dalla Commissione presieduta nella scorsa legislatura dall'onorevole Luciano Violante dal quale siamo pronti a ripartire. Allo stesso modo la invitiamo a portare subito in Parlamento la ratifica del Trattato di Lisbona, che costituisce un atto fondamentale per ogni Stato europeo che abbia a cuore il destino sociale e istituzionale dell'Unione.
Ma la vera sfida tra noi sarà sui grandi temi sociali. Questo Paese ha bisogno di un
grande cambiamento. Esso è divorato dall'ansia, dall'insicurezza, dalla paura: sono
certo ottimi materiali sui quali si può - e lo si è fatto - costruire l'edificio di una vittoria elettorale.
Diceva Roosevelt nel 1929: «L'unica cosa di cui dobbiamo aver paura, è la paura
stessa». Ci vuole poco a dire che si cancelleranno tutte le tasse, si espelleranno tutti gli immigrati, si garantirà la sicurezza di tutti, così come è facile - certi ideologismi di destra e di sinistra lo fanno sistematicamente - affermare che sia giusta ogni innovazione, purché sia lontana da sé.
L'ideologia del guscio, l'illusione che il mio luogo sia al riparo e possa astrarsi dal luogo di tutti, l'illusione che la mia vita sia separabile da quella degli altri, l'idea in sostanza di una società socialmente egoista con il fiato corto, convinta che la soluzione di ogni problema sia la sua semplice rimozione alla vista: il tema della sicurezza parla di questo, signor Presidente.
Gli immigrati che lavorano costituiscono il 6 per cento (qualcuno sostiene di più) del prodotto interno lordo del nostro Paese. L'economia e la società italiana hanno
bisogno di loro; sono persone che fuggono dalla miseria, non diverse dagli italiani
che attraversarono il mondo con la valigia di cartone in mano. Dobbiamo accogliere
chi vuole venire a lavorare e rendere più facile che ciò accada. Lo ha detto ieri
Giuseppe Pisanu: «L'unica strategia efficace di lotta all'immigrazione clandestina è
l'uso intelligente dell'immigrazione regolare» (Applausi dei deputati dei gruppi
Partito Democratico e Italia dei Valori).
Dobbiamo essere assolutamente severi contro ogni forma di criminalità; dobbiamo
espellere senza riserve chi mostra pericolosità sociale; dobbiamo far scontare le
pene a chi ha violato la sicurezza di un cittadino innocente, in primo luogo con
severità a chi distrugge la vita di un bambino o a chi considera il corpo di una donna come oggetto di propria proprietà. Ma attenzione alla caccia all'immigrato,
attenzione alle ronde, attenzione alla logica che ai più forti sia consentito stabilire se ci si possa rifiutare o meno di offrire una sigaretta o di portare i capelli in un certo modo.
Chi come me è convinto della giustezza del «pacchetto sicurezza» presentato dal
Governo Prodi e dal Ministro Amato nella scorsa legislatura ed è convinto - e lo ha
detto - che il vecchio centrosinistra abbia compiuto un errore enorme a non
approvarlo, sottovalutando il diritto di ogni cittadino a vivere tranquillo, chi come
me pensa questo sente però bisogno che non si smarriscano mai quei valori di
inclusione, di attenzione a chi vive nel disagio, di coscienza dei diritti che sono parte della nostra stessa identità di cittadini europei.
L'Italia vive con ansia e con una crescente insicurezza questo tempo nuovo e
difficile in cui emergono con sempre maggiore evidenza i segni di nuove difficoltà e
di autentiche nuove povertà.
Il salario medio lordo italiano è il ventitreesimo dei Paesi OCSE e cresce la
differenza con le altre nazioni. Più di ottocentomila persone lavorano in condizioni
precarie con meno di ottomila euro all'anno; sei milioni e mezzo di pensionati
percepiscono 550 euro al mese e tre milioni sono tra gli 800 e i 1.200 euro.
Nel 2006, secondo l'ISTAT, alla fine del suo mandato pieno, gli individui poveri erano quasi otto milioni e più di una famiglia su dieci oggi vive al di sotto della soglia di povertà. Quasi la metà della nostra popolazione in età adulta ha la licenza di scuola media inferiore.
L'Italia è un grande Paese, ma ha grandissimi problemi. La cultura dei «no», i vizi
ideologici hanno impedito l'innovazione infrastrutturale e tecnologica e tanti
conservatorismi di destra e di sinistra hanno frenato la costruzione di mercati
aperti, di liberalizzazioni, di nuove competitività, di valorizzazione del merito e del talento, di nuove frontiere di equità sociale, di nuove scelte ambientali.
L'Italia deve ripartire e deve farlo in un contesto internazionale molto difficile, figlio di una globalizzazione non governata e di uno squilibrio ormai insopportabile, nei singoli Paesi e nel mondo, tra chi ha e chi non ha e oggi anche tra chi produce e chi consuma e tra chi rispetta i diritti dei lavoratori e chi non lo fa. Romano Prodi, come nel 1996, ha avuto, ancora una volta, il merito di risanare la situazione finanziaria del Paese ed io voglio, ancora una volta, dargliene atto, in quest'aula, oggi. Lo dice la rimozione della procedura di infrazione europea e lo dicono i dati, confermati da Bankitalia, di una forte capacità di contrastare l'evasione fiscale incrementando le entrate; lo dice la riduzione del debito e quella del deficit, come ricordato ieri da Pier Luigi Bersani.
Al suo Governo - e concludo - spetta ora l'onere di dimostrare ciò che ha sostenuto
in campagna elettorale: che è possibile ridurre - come noi auspichiamo e
sosterremo - la pressione fiscale e garantire misure - come noi auspichiamo e
sosterremo - per aiutare gli stipendi, i salari e le pensioni più basse che sono la vera urgenza di questo Paese.
C'è solo un modo per liberare risorse: continuare la lotta all'evasione, ridurre la
spesa pubblica, semplificare questo Paese lento e con ancora elevati gradi di
corruzione della vita pubblica e di influenza dei poteri criminali. È il riformismo
moderno, almeno come noi lo intendiamo: non possiamo e non dobbiamo chiedere
a lei di assolvere questo compito.
Voteremo contro il suo Governo, ma convergeremo su ogni scelta che vada nella
direzione giusta: quella di un'Italia più equa, più moderna e più sicura.
L'opposizione la si fa pensando agli interessi profondi del Paese, pensando al futuro
dei nostri ragazzi, alla fatica ed al talento di chi lavora ed intraprende, ai timori dei nostri anziani. La si fa mossi non dalla volontà di mostrare i muscoli, ma di mostrare l'intelligenza ed il senso di responsabilità.
L'Italia giudicherà, nei prossimi mesi, chi avrà assolto al compito che qui ha preso.
Noi, per parte nostra, lo faremo da forza alternativa, con coraggio, apertura e
convinzione.
mercoledì 19 marzo 2008
Schede tematiche: Formazione e Istruzione
In Lombardia il tasso d’abbandono scolastico è più alto che in altre Regioni italiane,
per i primi due anni di scuola superiore, la media lombarda è del 16,6% a fronte di una media italiana del 15,9% a questo dato si accompagna invece il dato inerente al tasso di occupazione che raggiunge, per gli uomini, gli obiettivi di Lisbona.
Anche per questi motivi è necessario, qui più che altrove, cogliere il nesso esistente tra investimento in sapere a tutto campo e di lungo periodo e opportunità di crescita e di sviluppo.
La Lombardia per crescere ha bisogno di allargare un’offerta formativa di qualità per tutti. Lostesso sistema delle imprese comincia a cogliere la necessità di avere personale formato e qualificato, nel senso più ampio del termine, non solo idoneo a svolgere una singola mansione, oltre che attrezzato e sostenuto nella necessità di formazione continua.
E’ necessario pensare ad un’offerta formativa non standardizzata e flessibile che sappia superare positivamente i percorsi sperimentali attivati in coerenza con la ormai superata Legge Moratti la cui impostazione seguiva un criterio di rigidità e separatezza tra istruzione e formazione.
Sostenere il nostro sistema formativo deve significare, valorizzare le scelte compiute a livello nazionale con l’innalzamento dell’obbligo di istruzione a 16 anni, pensando ad un modello a forte integrazione fra istruzione e formazione. Coerentemente con quanto sancito dal Titolo V° della Costituzione è necessario ribadire la necessità di concepire l’istruzione come bene nazionale da garantire prioritariamente a questo livello e contemporaneamente riconoscere la compartecipazione di diversi soggetti a tutti i livelli non solo nazionale e regionale.
Pensiamo ad un sistema formativo basato su collaborazione e cooperazione che abbia come fondamento il pieno riconoscimento dell’autonomia scolastica e riconosca competenze programmatorie anche a Province e Comuni.
In quest’ottica poiché non è più possibile relegare la formazione professionale a cenerentola del sistema, spesso in difficoltà per l’incertezza dei finanziamenti risulta strategico investire in questo settore, di competenza esclusiva della Regione.
La formazione professionale può e deve intervenire a tutti i livelli: prima durante e dopo l’attività professionale. Può e deve occuparsi del primo inserimento con progetti e percorsi, concordati con il livello nazionale, per poter espletare l’obbligo d’istruzione ma anche saper investire sugli interventi di aggiornamento professionale, formazione continua ed alta formazione in raccordo con il sistema d’istruzione e il sistema universitario.
Per questo è fondamentale rilanciare e sostenere la realizzazione e implementazione sul nostro territorio dei Poli formativi possibile luogo dell’eccellenza e dell’integrazione fra sistemi.
per i primi due anni di scuola superiore, la media lombarda è del 16,6% a fronte di una media italiana del 15,9% a questo dato si accompagna invece il dato inerente al tasso di occupazione che raggiunge, per gli uomini, gli obiettivi di Lisbona.
Anche per questi motivi è necessario, qui più che altrove, cogliere il nesso esistente tra investimento in sapere a tutto campo e di lungo periodo e opportunità di crescita e di sviluppo.
La Lombardia per crescere ha bisogno di allargare un’offerta formativa di qualità per tutti. Lostesso sistema delle imprese comincia a cogliere la necessità di avere personale formato e qualificato, nel senso più ampio del termine, non solo idoneo a svolgere una singola mansione, oltre che attrezzato e sostenuto nella necessità di formazione continua.
E’ necessario pensare ad un’offerta formativa non standardizzata e flessibile che sappia superare positivamente i percorsi sperimentali attivati in coerenza con la ormai superata Legge Moratti la cui impostazione seguiva un criterio di rigidità e separatezza tra istruzione e formazione.
Sostenere il nostro sistema formativo deve significare, valorizzare le scelte compiute a livello nazionale con l’innalzamento dell’obbligo di istruzione a 16 anni, pensando ad un modello a forte integrazione fra istruzione e formazione. Coerentemente con quanto sancito dal Titolo V° della Costituzione è necessario ribadire la necessità di concepire l’istruzione come bene nazionale da garantire prioritariamente a questo livello e contemporaneamente riconoscere la compartecipazione di diversi soggetti a tutti i livelli non solo nazionale e regionale.
Pensiamo ad un sistema formativo basato su collaborazione e cooperazione che abbia come fondamento il pieno riconoscimento dell’autonomia scolastica e riconosca competenze programmatorie anche a Province e Comuni.
In quest’ottica poiché non è più possibile relegare la formazione professionale a cenerentola del sistema, spesso in difficoltà per l’incertezza dei finanziamenti risulta strategico investire in questo settore, di competenza esclusiva della Regione.
La formazione professionale può e deve intervenire a tutti i livelli: prima durante e dopo l’attività professionale. Può e deve occuparsi del primo inserimento con progetti e percorsi, concordati con il livello nazionale, per poter espletare l’obbligo d’istruzione ma anche saper investire sugli interventi di aggiornamento professionale, formazione continua ed alta formazione in raccordo con il sistema d’istruzione e il sistema universitario.
Per questo è fondamentale rilanciare e sostenere la realizzazione e implementazione sul nostro territorio dei Poli formativi possibile luogo dell’eccellenza e dell’integrazione fra sistemi.
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Schede tematiche: Welfare
Negli ultimi anni il nostro sistema di welfare ha subito importanti trasformazioni, attraverso un lungo ed impegnativo processo politico, culturale e legislativo avviato con la legge quadro 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali), con il decreto legislativo 229 del 1999 (la cosiddetta riforma ter della sanità) e con le leggi di settore.
Un sistema di protezione e di benessere sociale, nonché di promozione dei diritti di cittadinanza, però deve necessariamente trovare punti di raccordo tra i diversi sistemi, tra cui essenzialmente quello della sanità, dell’assistenza, dell’istruzione, della formazione professionale e dell’occupazione a cui si devono armonizzare anche le politiche della casa, dei trasporti e del tempo libero.
Ma l’incapacità di sostenere i livelli di raccordo e d’integrazione tra i diversi sistemi è stato fino ad oggi uno degli aspetti di maggiore criticità del sistema di welfare lombardo. La molteplicità degli attori pubblici e privati - con profili giuridici, gestionali e valoriali altamente diversificati - richiede, infatti, una capacità di governance che non può essere sostenuta nelle sole forme regolatrici del mercato richiamando strumentalmente il protagonismo del cittadino e il principio della libertà di scelta nei confronti dei soggetti erogatori di servizi.
In Lombardia il tema cruciale è quello dell’integrazione sociosanitaria, su cui altre regioni da tempo hanno legiferato, per disciplinare le reti e le unità d’offerta in ambito sanitario, sociosanitario e sociale, in particolare nei confronti delle persone non autosufficienti, anziani e gravi disabili.
Il tema della maggiore necessità d’integrazione sociosanitaria si accompagna alla necessità di riconoscere agli enti locali e in particolare ai Comuni la piena titolarità del sistema integrato dei servizi per essere direttamente coinvolti nella fase di programmazione sanitaria e socio-sanitaria
ANZIANI
Il sistema di protezione sociale per le persone non autosufficienti e i disabili gravi
La Lombardia è tra le regioni che sta subendo uno strutturale processo di invecchiamento. La vita media di un cittadino lombardo ha raggiunto i 76,9 anni per gli uomini e gli 83,2 per le donne. Ma al progressivo invecchiamento della popolazione non corrisponde sempre un analogo miglioramento della qualità della vita.
Il modello di welfare regionale riducendo drasticamente i servizi di assistenza domiciliare integrata, non è riuscito a garantire una nuova risposta con strumenti adeguati e appropriati alla grave non autosufficienza di anziani e disabili, se non con insufficienti trasferimenti monetari (buoni e voucher).
Oltre alla necessità più volte ribadita di istituire un fondo regionale per il sostegno alla non autosufficienza, si evidenzia la necessità di garantire percorsi e legami tra Ospedale e Territorio sviluppando la rete della continuità di cura dopo le dimissioni ospedaliere e l’ospedalizzazione a domicilio i servizi semiresidenziali e di sollievo.
HANDICAP E DISABILITA’
Servizi, scuola, formazione, lavoro
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha adottato nuovi strumenti di classificazione delle persone cosiddette portatrici di handicap che rivoluzionano il concetto stesso di disabilità. L’intera strategia europea si basa sui principi della non discriminazione, delle politiche d’inclusione sociale e delle pari opportunità.
Il sistema di protezione sociale lombardo, anche nel confronto dell’handicap e della disabilità, è stato caratterizzato da un modello di welfare che enfatizza, anche qui, i principi della libertà di scelta e delle responsabilità familiari. E’ un sistema che si è avvitato su stesso alla ricerca esasperata di modelli organizzativi e gestionali, senza riuscire a promuovere una governance tra le istituzioni e gli attori sociali della sanità, dell’assistenza, della scuola, del lavoro, dello sport, della cultura.
Oltre al potenziamento della rete dei servizi, è necessario:
offrire risposte flessibili e personalizzate ai bisogni di cura e di riabilitazione;
promuovere, nei fatti, su tutto il territorio lombardo dell’inserimento e dell’integrazione scolastica, anche dopo la recente normativa nazionale e regionale sulle nuove modalità di certificazione dell’handicap;
lo sviluppo dei servizi di pronto intervento semiresidenziali e di sollievo, a favore dei familiari che assistono i propri congiunti durante le situazioni di acuzie e criticità;
politiche attive del lavoro e della formazione professionale, finalizzate alla centralità della persona disabile e svantaggiata (una delle criticità riguarda i disabili mentali) nel processo d’inserimento lavorativo e al concreto supporto dei datori di lavoro impegnati a realizzare programmi d’integrazione lavorativa.
PRIMA INFANZIA E ADOLESCENZA
In Italia le politiche sociali, dopo l’esperienza delle iniziative promosse e finanziate con le leggi 285 del 1997 e 328 del 2000, si sono caratterizzate per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e per il sostegno dei minori in situazione di grave disagio. In Lombardia, secondo alcune ricerche condotte dai servizi e dalle Università, è molto alto il numero di bambini in carico ai servizi delle ASL e dei Comuni vittime di violenza accertata e con decreto di tutela emesso dal Tribunale e di bambini colpiti da forme di disagio che lasciano sospettare la presenza di abusi o violenze non ancora accertati.
Nonostante la legge regionale “Politiche regionali per i minori”, la cui copertura finanziaria è inadeguata, ci sono segnali da non trascurare che giungono dai servizi. Inoltre, sul versante dei servizi per la prima infanzia, l’offerta di asili nido e di micronidi è sempre critica in quanto non risponde alle richieste delle famiglie, coprendo solo il 10% dell’utenza potenziale.
Per questo si rende necessaria l’adozione di un Piano per la prima infanzia e l’adolescenza dove ricondurre l’intera progettualità dei piani sociali di zona, dove declinare i livelli essenziali delle prestazioni sociali a favore dei minori che obbligatoriamente devono essere assunte dall’intero sistema d’offerta sociale su tutto il territorio lombardo;
interventi mirati nei confronti dei minori stranieri abbandonati o autori di reato e dei cosiddetti bambini ombra dediti all’accattonaggio;
nuove strategie per garantire le misure cautelari finalizzate al trattamento della devianza minorile e le prestazioni socio sanitarie al bambino maltrattato e abusato e sfruttato sessualmente, nonché piani di azione contro lo sfruttamento e il lavoro minorile;
la realizzazione di asili nido negli ambiti territoriali carenti o assenti di servizi, favorendo le forme di cooperazione tra Comuni e tra i Comuni e i soggetti privati accreditati, nonché la realizzazione dei micro-nidi sui luoghi di lavoro, anche al fine di rafforzare la partecipazione di tutti i soggetti del mondo produttivo nei confronti delle responsabilità famigliari.
DONNE E VIOLENZA
Il fenomeno della violenza ha dimensioni di grandi proporzioni e non conosce confini, né differenze di classe, di etnia, di cultura, di religione o di appartenenza politica e i dati stanno a dimostrarne la vastità e la diffusione.
In Lombardia il fenomeno assume un peso rilevante, in particolare nelle aree urbane, non solo per quanto riguarda i fatti più eclatanti riportati dalla cronaca, ma anche e soprattutto, come testimonia l’esperienza quotidiana dei centri antiviolenza, da una recrudescenza di quelle “violenze invisibili” che si consumano fra le mura domestiche.
Combattere la violenza, quindi, significa, non solo reclamare maggiore sicurezza nelle strade e nei luoghi pubblici, ma soprattutto provvedere adeguate risorse per progetti di prevenzione, formazione, accoglienza, assistenza, ascolto, controllo, anche allo scopo di produrre un cambiamento nella cultura che produce violenza, principio guida che sta alla base dell’impegno, ormai quasi trentennale della rete delle Case delle Donne, Servizi e Centri antiviolenza delle donne diffuse in modo capillare su tutto il territorio lombardo.
A tale proposito è stato presentato dal gruppo consiliare del PD un progetto di legge che, nel proporre di dare il giusto riconoscimento e l’adeguato sostegno pubblico alle Case delle Donne, Servizi e Centri antiviolenza, afferma in modo inequivocabile il diritto di ogni donna ad essere accolta da altre donne che hanno lungamente maturato un’esperienza basata sulla cultura, la solidarietà, e le libertà femminili.
Il PdL, che propone una visione dinamica delle politiche contro la violenza sulle donne, stabilisce i tratti dell’azione delle Case delle Donne, Servizi e Centri antiviolenza che, nell’avvalersi di competenze formate nelle pratiche dell’accoglienza, è finalizzata ad assicurare in assoluta autonomia di metodo e di gestione, sostegno e solidarietà ad ogni singola donna.
Nell’indicare forme di collaborazione fra i Centri e le istituzioni, e tipologie di supporto volte a garantirne la continuità dell’attività, si pone l’obiettivo di istituzionalizzare le Case delle Donne, Servizi e Centri antiviolenza, inserendoli tra le strutture facenti parte della rete dei servizi territoriali e costituendo un Fondo regionale di finanziamento.
Un sistema di protezione e di benessere sociale, nonché di promozione dei diritti di cittadinanza, però deve necessariamente trovare punti di raccordo tra i diversi sistemi, tra cui essenzialmente quello della sanità, dell’assistenza, dell’istruzione, della formazione professionale e dell’occupazione a cui si devono armonizzare anche le politiche della casa, dei trasporti e del tempo libero.
Ma l’incapacità di sostenere i livelli di raccordo e d’integrazione tra i diversi sistemi è stato fino ad oggi uno degli aspetti di maggiore criticità del sistema di welfare lombardo. La molteplicità degli attori pubblici e privati - con profili giuridici, gestionali e valoriali altamente diversificati - richiede, infatti, una capacità di governance che non può essere sostenuta nelle sole forme regolatrici del mercato richiamando strumentalmente il protagonismo del cittadino e il principio della libertà di scelta nei confronti dei soggetti erogatori di servizi.
In Lombardia il tema cruciale è quello dell’integrazione sociosanitaria, su cui altre regioni da tempo hanno legiferato, per disciplinare le reti e le unità d’offerta in ambito sanitario, sociosanitario e sociale, in particolare nei confronti delle persone non autosufficienti, anziani e gravi disabili.
Il tema della maggiore necessità d’integrazione sociosanitaria si accompagna alla necessità di riconoscere agli enti locali e in particolare ai Comuni la piena titolarità del sistema integrato dei servizi per essere direttamente coinvolti nella fase di programmazione sanitaria e socio-sanitaria
ANZIANI
Il sistema di protezione sociale per le persone non autosufficienti e i disabili gravi
La Lombardia è tra le regioni che sta subendo uno strutturale processo di invecchiamento. La vita media di un cittadino lombardo ha raggiunto i 76,9 anni per gli uomini e gli 83,2 per le donne. Ma al progressivo invecchiamento della popolazione non corrisponde sempre un analogo miglioramento della qualità della vita.
Il modello di welfare regionale riducendo drasticamente i servizi di assistenza domiciliare integrata, non è riuscito a garantire una nuova risposta con strumenti adeguati e appropriati alla grave non autosufficienza di anziani e disabili, se non con insufficienti trasferimenti monetari (buoni e voucher).
Oltre alla necessità più volte ribadita di istituire un fondo regionale per il sostegno alla non autosufficienza, si evidenzia la necessità di garantire percorsi e legami tra Ospedale e Territorio sviluppando la rete della continuità di cura dopo le dimissioni ospedaliere e l’ospedalizzazione a domicilio i servizi semiresidenziali e di sollievo.
HANDICAP E DISABILITA’
Servizi, scuola, formazione, lavoro
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha adottato nuovi strumenti di classificazione delle persone cosiddette portatrici di handicap che rivoluzionano il concetto stesso di disabilità. L’intera strategia europea si basa sui principi della non discriminazione, delle politiche d’inclusione sociale e delle pari opportunità.
Il sistema di protezione sociale lombardo, anche nel confronto dell’handicap e della disabilità, è stato caratterizzato da un modello di welfare che enfatizza, anche qui, i principi della libertà di scelta e delle responsabilità familiari. E’ un sistema che si è avvitato su stesso alla ricerca esasperata di modelli organizzativi e gestionali, senza riuscire a promuovere una governance tra le istituzioni e gli attori sociali della sanità, dell’assistenza, della scuola, del lavoro, dello sport, della cultura.
Oltre al potenziamento della rete dei servizi, è necessario:
offrire risposte flessibili e personalizzate ai bisogni di cura e di riabilitazione;
promuovere, nei fatti, su tutto il territorio lombardo dell’inserimento e dell’integrazione scolastica, anche dopo la recente normativa nazionale e regionale sulle nuove modalità di certificazione dell’handicap;
lo sviluppo dei servizi di pronto intervento semiresidenziali e di sollievo, a favore dei familiari che assistono i propri congiunti durante le situazioni di acuzie e criticità;
politiche attive del lavoro e della formazione professionale, finalizzate alla centralità della persona disabile e svantaggiata (una delle criticità riguarda i disabili mentali) nel processo d’inserimento lavorativo e al concreto supporto dei datori di lavoro impegnati a realizzare programmi d’integrazione lavorativa.
PRIMA INFANZIA E ADOLESCENZA
In Italia le politiche sociali, dopo l’esperienza delle iniziative promosse e finanziate con le leggi 285 del 1997 e 328 del 2000, si sono caratterizzate per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e per il sostegno dei minori in situazione di grave disagio. In Lombardia, secondo alcune ricerche condotte dai servizi e dalle Università, è molto alto il numero di bambini in carico ai servizi delle ASL e dei Comuni vittime di violenza accertata e con decreto di tutela emesso dal Tribunale e di bambini colpiti da forme di disagio che lasciano sospettare la presenza di abusi o violenze non ancora accertati.
Nonostante la legge regionale “Politiche regionali per i minori”, la cui copertura finanziaria è inadeguata, ci sono segnali da non trascurare che giungono dai servizi. Inoltre, sul versante dei servizi per la prima infanzia, l’offerta di asili nido e di micronidi è sempre critica in quanto non risponde alle richieste delle famiglie, coprendo solo il 10% dell’utenza potenziale.
Per questo si rende necessaria l’adozione di un Piano per la prima infanzia e l’adolescenza dove ricondurre l’intera progettualità dei piani sociali di zona, dove declinare i livelli essenziali delle prestazioni sociali a favore dei minori che obbligatoriamente devono essere assunte dall’intero sistema d’offerta sociale su tutto il territorio lombardo;
interventi mirati nei confronti dei minori stranieri abbandonati o autori di reato e dei cosiddetti bambini ombra dediti all’accattonaggio;
nuove strategie per garantire le misure cautelari finalizzate al trattamento della devianza minorile e le prestazioni socio sanitarie al bambino maltrattato e abusato e sfruttato sessualmente, nonché piani di azione contro lo sfruttamento e il lavoro minorile;
la realizzazione di asili nido negli ambiti territoriali carenti o assenti di servizi, favorendo le forme di cooperazione tra Comuni e tra i Comuni e i soggetti privati accreditati, nonché la realizzazione dei micro-nidi sui luoghi di lavoro, anche al fine di rafforzare la partecipazione di tutti i soggetti del mondo produttivo nei confronti delle responsabilità famigliari.
DONNE E VIOLENZA
Il fenomeno della violenza ha dimensioni di grandi proporzioni e non conosce confini, né differenze di classe, di etnia, di cultura, di religione o di appartenenza politica e i dati stanno a dimostrarne la vastità e la diffusione.
In Lombardia il fenomeno assume un peso rilevante, in particolare nelle aree urbane, non solo per quanto riguarda i fatti più eclatanti riportati dalla cronaca, ma anche e soprattutto, come testimonia l’esperienza quotidiana dei centri antiviolenza, da una recrudescenza di quelle “violenze invisibili” che si consumano fra le mura domestiche.
Combattere la violenza, quindi, significa, non solo reclamare maggiore sicurezza nelle strade e nei luoghi pubblici, ma soprattutto provvedere adeguate risorse per progetti di prevenzione, formazione, accoglienza, assistenza, ascolto, controllo, anche allo scopo di produrre un cambiamento nella cultura che produce violenza, principio guida che sta alla base dell’impegno, ormai quasi trentennale della rete delle Case delle Donne, Servizi e Centri antiviolenza delle donne diffuse in modo capillare su tutto il territorio lombardo.
A tale proposito è stato presentato dal gruppo consiliare del PD un progetto di legge che, nel proporre di dare il giusto riconoscimento e l’adeguato sostegno pubblico alle Case delle Donne, Servizi e Centri antiviolenza, afferma in modo inequivocabile il diritto di ogni donna ad essere accolta da altre donne che hanno lungamente maturato un’esperienza basata sulla cultura, la solidarietà, e le libertà femminili.
Il PdL, che propone una visione dinamica delle politiche contro la violenza sulle donne, stabilisce i tratti dell’azione delle Case delle Donne, Servizi e Centri antiviolenza che, nell’avvalersi di competenze formate nelle pratiche dell’accoglienza, è finalizzata ad assicurare in assoluta autonomia di metodo e di gestione, sostegno e solidarietà ad ogni singola donna.
Nell’indicare forme di collaborazione fra i Centri e le istituzioni, e tipologie di supporto volte a garantirne la continuità dell’attività, si pone l’obiettivo di istituzionalizzare le Case delle Donne, Servizi e Centri antiviolenza, inserendoli tra le strutture facenti parte della rete dei servizi territoriali e costituendo un Fondo regionale di finanziamento.
Schede tematiche: Salute
La sanità in Lombardia è certamente, come nella sua tradizione, fra le più avanzate ed efficienti del Paese, sia sotto il profilo tecnologico sia per quanto riguarda l’organizzazione di risorse umane e strumentali e purtuttavia rimane fortemente squilibrata a favore di una logica di sistema prevalentemente aziendalistica e di mercato che la vede propensa alle prestazioni più remunerative, con una netta divisione fra le strutture erogatrici delle prestazioni sanitarie e le Aziende Sanitarie Locali, con i livelli decisionali fortemente accentrati al livello istituzionale regionale.
Elementi che spesso hanno dimostrato di non saper rispondere in modo adeguato alle esigenze di una società che ha visto il proprio profilo demografico trasformarsi rapidamente a fronte di percentuali di invecchiamento fra le più alte d’Europa, con una maggioranza di ultraottantenni e quindi con un forte incremento delle patologie croniche ed invalidanti
Un simile contesto richiederebbe di correggere alcune distorsioni ingenerate dal sistema attraverso:
· Lo sviluppo ed il rafforzamento della rete dei servizi territoriali a risposta integrata sociale e sanitaria
· La costruzione di un forte circuito di continuità assistenziale che preveda la riorganizzazione ed il potenziamento delle cure primarie ed in particolare della medicina generale con il coordinamento operativo con i servizi specialistici, il pieno utilizzo dei fondi disponibili per la gestione delle non autosufficienze e la ricomposizione della rete ospedaliera in senso sinergico fra ospedali per acuti e presidi territoriali dedicati alla riabilitazione e alla prevenzione
· Una maggiore attenzione all’appropriatezza delle prestazioni,investendo in ricerca ed innovazione, promuovendo la “clinical governance” (anche come riequilibrio del potere monocratico dei Direttori generali delle Aziende sanitarie) e attivando sistemi di controllo, sia sulla qualità e l’apprpriatezza delle cure, ma anche sulla spesa e sui centri di costo
· Un forte coinvolgimento del territorio, ed il recupero del ruolo attivo delle istituzioni locali dei cittadini e delle famiglie, dispiegando tutte le forme di sussidiarietà verticale ed orizzontale
· La piena valorizzazione del ruolo degli operatori sanitari, delle competenze e dei meriti e la riduzione progressiva della situazione di precarietà del lavoro che rappresenta elemento disgregante la stabilità ed affidabilità delle strutture sanitarie
· Il rifiuto dello “spoil sistem” per i ruoli di direzione e recuperando per tali ruoli il sistema di promozione basato sulla cultura e valutazione dei risultati scientifici e professionali in contrasto con un sistema di designazione dei dirigenti basato sull’appartenenza politica come peraltro indicato dalla proposta di ammodernamento del Servizio sanitario nazionale avanzato dal Ministro della Salute.
· Nuovo impulso alle politiche di promozione della salute e degli stili di vita corretti, anche tramite la tutela dell’ambiente, con un maggiore impegno a fronte degli scarsi risultati ottenuti dall’ ARPA, e gli interventi di prevenzione delle patologie prevalenti (cardiocircolatorie e tumorali) e gli incidenti nei luoghi di lavoro
Elementi che spesso hanno dimostrato di non saper rispondere in modo adeguato alle esigenze di una società che ha visto il proprio profilo demografico trasformarsi rapidamente a fronte di percentuali di invecchiamento fra le più alte d’Europa, con una maggioranza di ultraottantenni e quindi con un forte incremento delle patologie croniche ed invalidanti
Un simile contesto richiederebbe di correggere alcune distorsioni ingenerate dal sistema attraverso:
· Lo sviluppo ed il rafforzamento della rete dei servizi territoriali a risposta integrata sociale e sanitaria
· La costruzione di un forte circuito di continuità assistenziale che preveda la riorganizzazione ed il potenziamento delle cure primarie ed in particolare della medicina generale con il coordinamento operativo con i servizi specialistici, il pieno utilizzo dei fondi disponibili per la gestione delle non autosufficienze e la ricomposizione della rete ospedaliera in senso sinergico fra ospedali per acuti e presidi territoriali dedicati alla riabilitazione e alla prevenzione
· Una maggiore attenzione all’appropriatezza delle prestazioni,investendo in ricerca ed innovazione, promuovendo la “clinical governance” (anche come riequilibrio del potere monocratico dei Direttori generali delle Aziende sanitarie) e attivando sistemi di controllo, sia sulla qualità e l’apprpriatezza delle cure, ma anche sulla spesa e sui centri di costo
· Un forte coinvolgimento del territorio, ed il recupero del ruolo attivo delle istituzioni locali dei cittadini e delle famiglie, dispiegando tutte le forme di sussidiarietà verticale ed orizzontale
· La piena valorizzazione del ruolo degli operatori sanitari, delle competenze e dei meriti e la riduzione progressiva della situazione di precarietà del lavoro che rappresenta elemento disgregante la stabilità ed affidabilità delle strutture sanitarie
· Il rifiuto dello “spoil sistem” per i ruoli di direzione e recuperando per tali ruoli il sistema di promozione basato sulla cultura e valutazione dei risultati scientifici e professionali in contrasto con un sistema di designazione dei dirigenti basato sull’appartenenza politica come peraltro indicato dalla proposta di ammodernamento del Servizio sanitario nazionale avanzato dal Ministro della Salute.
· Nuovo impulso alle politiche di promozione della salute e degli stili di vita corretti, anche tramite la tutela dell’ambiente, con un maggiore impegno a fronte degli scarsi risultati ottenuti dall’ ARPA, e gli interventi di prevenzione delle patologie prevalenti (cardiocircolatorie e tumorali) e gli incidenti nei luoghi di lavoro
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